Lidia e Adelina
Leggende, radici, civiltà.
Nella fanciullezza circolava in paese una storia leggendaria: quando l’eremita, che sarebbe divenuto Patrono di Cocullo, attraversò la nostra valle ordinò a un lupo che aveva rapito un bimbo di liberarlo; la belva eseguì l’ordine e fece un giro sui nostri monti andandosi a fissare sulla Selva mentre la forma del viso plasmava una roccia che, vista dal paese, aveva le sembianze ferine. Teniamo presente che a qualche metro da quella roccia passava un comodo viottolo che dal paese conduceva verso Forca D’Oro, valico montano che i pellegrini provenienti dalla Marsica, dalla Ciociaria e dal Molise attraversavano per scendere a venerare San Domenico. Su una gibbosità poco distante da quella roccia era issata una croce e anche i Cocullesi salivano a pregare in quei luoghi nella ricorrenza della Domenica delle Palme. Probabilmente la “lopa” (è il nome che diedero i paesani a quella roccia) nacque da una metafora della religione popolare e si coniugò con la fede dei pellegrini e dei locali. Fra questi assidue furono Lidia e Adelina, i cui sentimenti arcaici miscelati con quelli degli sposi si erano diluiti nella turgida vena nostalgica per la terra di origine innestata nel patrimonio culturale dei discendenti.
Non è una banalità, ma anzi una banalità che raffinò e alimentò lo spirito e la intraprendenza: questi sensi avevano indotto i rispettivi mariti e i loro nuclei familiari a seguire un nuovo binario che li portò ad una terra che favorisse lo sviluppo della loro attività creativa allorché le condizioni economiche mutate li costrinsero ad emigrare in California.
Circa quarant’anni fa Adelina e Lidia tornarono al paese nativo ed espressero il desiderio di tornare alla “Crucélla”: Pasquale Chiocchio, insieme con sua moglie Maria, esaudì il desiderio delle due paesane e le accompagnò fino alla meta. Quando, anni dopo, Mario Gentile, figlio di Lidia, venne a Cocullo, chiese ad un suo parente, Valerio Chiocchio, di presentargli il signore che aveva soddisfatto la volontà della madre per significargli sentimenti di gratitudine. Quest’anno Mario, come già altre volte, è tornato alla festa di San Domenico e lo troveremo in un breve elenco di Cocullesi e di loro discendenti emigrati o nati nel Nuovo Mondo.
Da che mondo è mondo su tutte le terre del pianeta si stanziarono popolazioni compatibili con le loro condizioni ambientali, con le loro usanze, con le loro tradizioni, con le loro civiltà, ecc.
La nostra Rivista vede la luce su un territorio educato agli usi, ai costumi, alle religioni, ecc. Quindi soffermiamoci sulla penisola, nella stagione calda in parallelo con il nostro fuso orario e con l’evoluzione della società. La nostra cultura, che ha anche una sfaccettatura nella religione, permea le espressioni della vita sociale. E questo introduce la lettura alla fioritura stagionale e alle numerose manifestazioni che in essa si articolano. In genere le feste patronali si celebrano più solennemente nell’arco estivo, che favorisce il ritorno di amici e paesani i quali, per vari motivi, si erano allontanati dalla culla natia. Questo fenomeno si acuisce particolarmente nei piccoli centri i cui abitanti per pochi giorni potranno colloquiare con i loro compaesani o con lo spirito dei loro compaesani: da qualche tempo tornano anche i loro discendenti, ma lo spirito è quello dei padri.
Quest’anno, alla festa di San Domenico di maggio, diverse abitazioni di nostri emigrati di tanti anni fa sono state allietate dall’allegro vociare di bimbi nati anche Oltreoceano.
Fino alla metà del secolo scorso, allorché la diaspora dei Cocullesi assestò il colpo definitivo al registro della popolazione, il nucleo del capoluogo e quello della frazione superava il migliaio di abitanti. Oggi i residenti sono ridotti in misura ultrapotenziale nel capoluogo e nella frazione. C’è da credere che una situazione analoga abbia interessato gli altri piccoli Comuni; ma in ognuno di essi (naturalmente però il tema è incentrato su Cocullo) la celebrazione delle feste patronali è rispettata. Perché le usanze, anche quelle religiose, sono un patrimonio della tradizione e quindi esse affondano le radici nelle origini dell’uomo che le perpetua: il giorno di festa sin dai primordi fu un momento di svago e la sua organizzazione portò alla scoperta della solidarietà fra concittadini e dell’ospitalità ai forestieri; con il progredire della civiltà l’afflusso dei visitatori cambiò la tonalità, ma non la musica.
A parte le argomentazioni di carattere generale, quest’anno nel nostro paese il ritorno dei Cocullesi o dei loro parenti emigrati è stato eccezionale [Vedi nota 1, in fondo al testo]. A questo punto verrebbe da chiedersi se i molti emigrati venuti abbiano voluto dimostrare con la loro presenza il desiderio di vedere restaurato il Santuario.
Qualche tempo fa su questa Rivista fu pubblicato un mio articolo in cui descrivevo le celebrazioni della festa patronale come venivano effettuate una ottantina di anni fa. Non ricordo se accennai all’intervento personale di emigrati cocullesi in altri continenti o in altri stati del mondo o da altri centri della penisola; forse non parlai neanche dei contributi in denaro (specialmente dalle Americhe) che ogni anno erano effettuati al comitato organizzatore della festa, il quale contributo non è mai mancato. Basterebbe questa devoluzione in onore del Patrono per dimostrare che i nostri compaesani camminavano fermamente nel solco della tradizione e che la stavano innestando saldamente nei loro discendenti. Costoro quest’anno, ripeto, sono venuti in numero preponderante rispetto agli altri anni. Ne faremo un breve elenco, riferito solo alle persone tornate dall’estero e scusandoci fin d’ora con coloro che ci saranno sfuggiti, il che è comprensibile se si considera il trambusto della festa e l’afflusso dei turisti e dei pellegrini:
il fratello di Maria Cesidia: Stefano Chiocchio [2], con la moglie Lucia Capponi, dalla Francia; i figli di Serafino Gentile e di Lidia Chiocchio: Mario e il fratello Gino, con sua moglie Yvette, da San Francisco (California); il nipote di Nicola Gentile e di Adelina Nonni: Joe Both con la moglie Brit dalla California; la figlia di Nicola Mascioli e Brigida: Elisa, vedova di Rodolfo Marchione [3], da Boston (Massachusetts); la figlia di Fernando Gizzi e Vanda: Rosanna [4], con il marito David dal Massachusetts; Agata Spadafora, figlia di Antonia Arcieri [5], con due suoi famigliari.
Per motivi di spazio omettiamo un elenco (perché sarebbe troppo lungo) dei Cocullesi residenti in vari centri d’Italia, paesani, o discendenti, che numericamente hanno superato di molto i residenti di Cocullo e frazione. Adesso cerchiamo di scrutare nella dimensione culturale che sta nella radice della più luminosa nostra tradizione.
Intanto ripeto quello che ho già scritto più volte: l’estasi eremitica e le peregrinazioni del monaco cassinese (Domenico da Foligno, nato nel 951ca-morto nel 1031) avvennero attorno all’anno Mille, cioè sotto il Regno delle Due Sicilie di Guglielmo il Normanno. Va sottolineato che i Normanni avevano trovato una folla smarrita di ex pagani pronti ad accogliere un nuovo Credo che prometteva libertà e fratellanza. Poiché la politica non si è mai svincolata dagli usi e dalle religioni dei sudditi, i regnanti accettarono gli usi e le tradizioni dei Cristiani. Ma già da allora il faro di civiltà (Montecassino) aveva cominciato a brillare ed a creare personaggi dell’alto clero, dotti e autorevoli; queste autorità espressero qualche perplessità sulle tradizioni offensive per la religione. Infatti il papa Pasquale II nel 1104 canonizzò quel monaco cassinese nell’abbazia di Casamari e gli eresse una chiesa cointitolandola alla Beata Maria Vergine e a San Domenico. Ora, in una vecchia bolla corografica della nostra Diocesi, nello stesso periodo sorgeva a Cocullo una chiesa forse con lo stesso titolo [6]. Dunque fino al 1200 la tradizione religiosa fu accolta con tutte le scorie pagane. Dal 1300 a quasi tutto il Basso Medioevo nel circondario peligno [7] si accese una lotta scismatica e già dalla metà del 1300 i Cassinesi fecero nominare un monaco cassinese, che fu definito “manesco”, come vescovo di Sulmona. Quell’attributo, evidentemente scaturito dal giudizio del bonifaciano (Bonifacio VIII) cardinale Caetani Stefaneschi (il quale aveva definito i seguaci dei Fratelli dello Spirito Santo come “rozzi e testardi”) faceva capire che i Cassinesi propendevano per una svolta che si addicesse all’adattamento da parte dell’alto clero all’evoluzione della società; ma a questo proposito si oppose la frangia più rigorista di quei religiosi che saranno chiamati Celestini e “Fratelli dello Spirito Santo del Signor Celestino della Maiella”.
Successivamente, ma sulle orme di San Basilio, di San Cassiano, di Sant’Agostino, la Chiesa accoglierà le tradizioni, sublimate sulle scorie idolatriche.
Nel giorno della festa, che dovrebbe cadere il primo giovedì di maggio, secondo la tradizione rinvigorita dalla Bolla del 27 aprile 1824, hanno partecipato alla processione i Sindaci di Comuni limitrofi (tempo fa suggerimmo il gemellaggio) [8]. Qui di seguito riporto il testo della Bolla:
Il clero di Cucullo, della Diocesi di Sulmona, celebra la ricorrenza di San Domenico Abate, assegnata dal Martirologio Romano al 22 gennaio, con Ufficio e Messa propri; ma poiché la Gente dei Luoghi circostanti, in quella stagione, per l’asprezza delle vie, è ostacolata a raggiungere quella Chiesa posta sulle montagne, così è prevalsa l’abitudine di trasferire la Solennità esterna al primo giovedì di Maggio. In verità affinché la Folla nel giorno stabilito non cessi dal render le lodi del Santo Abate, il Parroco e il Clero del Luogo su detto hanno supplicato assai umilmente il Santissimo Signor Nostro Leone XII Pontefice Massimo affinché detto giorno d’ora in avanti valga come se fosse Consacrato al Patrocinio di San Domenico, e in esso si possa recitare l’Ufficio, e celebrare la Messa come nel giorno 22 di Gennaio. Sua Santità per me sottoscritto, relatore Segretario della Sacra Congregazione dei Riti, ha benignamente accordato che il rito, nel rispetto della liturgia, vi sia la duplicazione di maggio. Nel giorno 27 Aprile 1824. Card.Giulio di Somalia, Vescovo Ostiense, vice cancelliere di Santa Chiesa e Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti.
Infine: GRAZIE AI COCULLESI E, SOPRATTUTTO AI PAESANI NON RESIDENTI i quali senz’altro hanno superato il numero dei residenti del capoluogo e della frazione, contribuendo oltretutto con le loro conoscenze ed i loro parenti sparsi per il mondo, a far rivivere la solidarietà e l’ospitalità, proprio nella ricorrenza sacra.
Note
[1] Fino a pochi anni fa almeno due o tre compaesani emigrati ogni anno tornavano salvo qualche assenza provocata da impegni imprescindibili; da qualche anno non sono tornati più, ovviamente né loro né le loro famiglie, per protesta dovuta al pasticcio sismico, cioè alle conseguenze del cosiddetto terremoto che nel 2009 scosse il “cratere” aquilano.
[2] L’ing. Stefano e la dottoressa Maria Cesidia sono figli del prof. Loreto, fratello di Lidia e di Emidio.
[3] Elisa aveva sposato Rodolfo: costui era fratello di Giuseppe che a sua volta aveva sposato Flora Gizzi, sorella di Fernando; quindi, per via della cognazione Elisa, è anche parente acquisita di Rosanna.
[4] L’avvocato Rosanna Gizzi è venuta con altri parenti residenti in centri italiani. Una curiosità: nel giorno fatidico un suo cugino medico, residente a Imola, ha riconosciuto e avvicinato tra la folla una sua paziente.
[5] Agata è figlia di Antonia Arcieri, vedova Spadafora. Antonietta certamente conosceva bene le amiche Lidia e Adelina pressappoco coetanee e ormai defunte. Antonietta è l’unica vivente, in Francia, ma quest’anno non è venuta, malgrado avesse mostrato intenzione di farlo, come quasi tutti gli anni; ma o per età (96 anni) o …per preveggenza, è stata sconsigliata dall’inclemenza del tempo. Comunque ella non è stata inferiore alle due amiche nel seguire la linea adottata e coltivata bene da Lidia e Adelina nella formazione dei discendenti. Mentre questo lavoro parte per la redazione, riceviamo la notizia secondo cui Antonietta avrebbe confidato la volontà di tornare come ogni estate per la fine del mese: magari!
[6] Nel 1200 passeranno i Templari e cambieranno molte cose: furono costruiti un monastero, chiese e oratori nella Valle del Sagittario e particolarmente nella zona di Cocullo; e la chiesetta di San Domenico? Scomparve per riapparire poco dopo con il titolo di Sant’Amico.
[7] Veramente Cocullo fino al 1860, appartenne alla contea dei Marsi, pur gravitando sul versante peligno dello spartiacque marsicano.
[8] Per quanto riguarda la componente folcloristica lo sfondo pastorale (Molise, Adriatico) ricorda la diffusione dei culti su calles (paganesimo) e tratturi (religione popolare, cristianesimo); per l’altra componente del gioiello folcloristico-religioso, l’attenzione è focalizzata sull’Umbria e sulla Ciociaria (Foligno, Sora).