Abruzzo forte e gentile
E’ il titolo di un libretto del giornalista Primo Levi, scritto alla fine del 1800. Allora l’Abruzzo era così e forse restò tale fino alla prima metà del 1900; ma il colpo di grazia glielo diedero alcuni di quei troppi statisti quando lo privarono del Molise (1964). Che voleva significare Levi? Evidentemente lo scrittore si riferiva alla culla della nostra etnia, cioè alla terra che era stata la culla del nostro popolo: ai componenti di quel popolo impastato con la roccia della sua terra, abitato da gente garbata e cortese pure quando portava “scarpe grosse e cervello fino”. Questa caratteristica contraddistinse non solo quella regione fino a quando la sua etnia restò stanziata nel territorio; poi le mutate politiche economiche crearono un mostro, l’urbanesimo, il quale finì con l’avvincere le “scarpe grosse” nella farragine dello smog e del chiasso cittadino fatto di cemento: fu così che i provinciali abbandonarono la roccia e si imbastardirono scivolando sul bitume. Persero la modestia e la natura brillante e spensierata. Già da decenni, gelosi delle loro origini e delle loro memorie, alcune personalità abruzzesi avevano dovuto varcare i confini della propria regione o della penisola per cercare la celebrità che meritavano. Tosti e Celommi erano amici e conoscenti di altre personalità illustri della loro Terra, magari nel “Cenacolo” michettiano e pure perché avvinti dal legame della vocazione per l’arte, a Teofilo Patini e a Gabriele D’Annunzio, il più noto esponente del “convento” francavillese.
Francesco Paolo Tosti, famoso musicista vastese e direttore d’orchestra nonché compositore di centinaia di stupende romanze (“Ideale”, “Mattinata”,…), dopo una breve esperienza come maestro di canto della regina Margherita, trovò fortuna a Londra come insegnante della regina Vittoria e lì si affermò definitivamente come compositore.
Pasquale Celommi, pittore teramano (Roseto degli Abruzzi), invece, fu costretto ad affidare a Gallerie straniere la sua bravura. Anche in Italia furono ricercati i suoi quadri, ma la fama forse superò di poco i confini della nostra regione: fu un tipico rappresentante abruzzese il quale confidò soltanto sulla sua condotta di vita sana, sulla austerità dei suoi costumi e sulla dignità del lavoro. La sua produzione pittorica varia su disparati temi, dai giovanili disegni a carbone sulle fiancate delle paranze, da scene di vita agropastorale, scene che esprimono l’impegno sociale nei dipinti dello sposalizio rurale e nel ciabattino: nel primo dipinto si avverte l’aria festosa, pur se in un ambiente semplice, rustico, allietato dalla chitarra, dal tamburello, dalla donna sulle scale che augura “masch’i ffémmene a ‘ccasa mé’”; nel ciabattino l’autore manifesta nello stesso tempo la civiltà del lavoro ed il suo impegno nella vita sociale con l’esaltazione dell’artigianato, mestiere che oggi è agonizzante. La pittura diventa quasi scultura nei lineamenti dell’artigiano e nel suo sguardo calamitato dagli strumenti rozzi del lavoro ordinati sul prezioso desco: prezioso, poiché per lui é l’indispensabile fonte di sussistenza e decoro.
Ideale
Io ti seguii come iride di pace (1)
Lungo le vie del cielo:
Io ti seguii come un’amica face
De la notte nel velo
E ti sentii ne la luce, ne l’aria
Nel profumo dei fiori;
E fu piena la stanza solitaria
Di te, dei tuoi splendori.
In te rapito, al suon de la tua voce
Lungamente sognai;
E de la terra ogni affanno, ogni croce
In quel giorno scordai.
Torna, caro ideal, torna un istante
A sorridermi ancora
E a me risplenderà, nel tuo sembiante
Una novella aurora.
(1) - Bando al sentimentalismo romantico, il richiamo all' "iride di pace" potrebbe essere un ottimo e profetico richiamo alla situazione attuale: questo tacitiano commento potrebbe essere una nota dell'autore del presente scritto. N.C.