Uno spaccato dell'Alta Valle del Sagittario
Ero giovane, ma non ancora maturo. Durante una passeggiata sulla via che dal Casale porta a Cocullo stavo ripassando e riflettendo sulla lezione impartita dal prof. Pescerelli ai suoi alunni liceali nella mattinata: i moti d’animo suscitati dalla morte della manzoniana piccola Cecilia, anche in vista di un’eventuale interrogazione agli esami di Stato, quando, giunto in prossimità della “fonte dell’aia”, m’imbattei in un pittore che aveva piazzato il cavalletto ai margini della strada e dipingeva, curvo, un paesaggio da me ammirato troppe volte e che mi aveva spinto a preferire quell’itinerario: Il quadro era quasi completo allorché si profilarono le prime ombre del tramonto con i suoi colori riflessi sull’ambiente circostante e, purtroppo pure una leggera tinta di mestizia sull’abitato, che spiccava come un presepe estivo: quel presepe era Cocullo. Un presagio? Conservava il suo agglomerato ancora intero, ma non integro nella parte bassa, in cui erano fiorite la storia e la ricchezza del paese. Era stato (ed era) il centro del fervore e della vitalità al tempo dell’economia pastoral-contadina, già in parte abbandonata e aggredita dagli sterpi. Il cielo turchino rendeva più affascinante la pittura. Dopo il mio trasferimento a Roma rividi il quadro nella sede dell’Associazione Abruzzese, ove quel pittore, Fiore Vespa, aveva allestito una Mostra. Vespa era il cognome dell’artista aquilano, consigliere del club come me, e poi mi divenne amico. Allorché gli chiesi il prezzo dell’opera (dimensione: un metro e mezzo x un metro e mezzo circa) mi sembrò che esso fosse troppo alto per le mie possibilità (ed era un prezzo di favore!) e rinunciai all’acquisto. Alle vacanze estive ricevetti in paese una cartolina illustrata riproducente davanti la foto del quadro incorniciato e nel retro i saluti di Fiore.
Mi sono dilungato troppo? Credevo di conferire chiarezza alla narrazione e soprattutto dare un’idea della bellezza del paese e del paesaggio che furono (e senza accennare agli odierni capricci meteorologici che li turbano).
Nella mappa catastale dei manufatti “10 a bis” del capoluogo, risalente ad un’epoca imprecisata della mia esistenza giovanile, appare quasi tutto il nucleo più importante e centrale dell’abitato (centro storico) da mettere a confronto con quella dell’attuale piazza della Madonna attorno a cui oggi si svolge una sparuta e disorientata vita demografica. Qualche secolo addietro questo grosso spiazzo era attraversato da un rudimentale acciottolato viario collegante il centro storico con l’antica chiesetta e scomparso perché rientrò nel demanio comunale fino all’accesso di Via Canale e di lì al “Lago” divenuto servitù di passaggio (allora la più grande del paese) e proseguiva, dopo essersi unita ad un altro ripido viottolo che saliva a sinistra della chiesa (attuale Via Canale, così denominata forse dopo la metà del’700) fino a qualche residuo rudere della vicina località “Lago”, mentre ai margini di quel viottolo vi erano terre coltivate a grano; quando io ero ragazzotto la piazza era imbrecciata e su di questa si affacciavano poche case (a cui poi se ne aggiunsero, o ristrutturarono, altre), compresi una vecchia baracca (forse eretta nel 1800 per ospitare la scuola elementare e ancora esistente nel 1924 quando vi andò ad insegnare mamma), l’ufficio postale, la moderna casa di Vitaliano Marchione e, di fronte, l’edificio scolastico costruito nel 1938 e trasformato in municipio dopo il 1945. Negli spazi sottostanti, dopo una disagevole e ripida discesa, prima della località seminata a grano “Le Terre” e probabile continuazione della periferica “Aravecchia”, qualche abitazione isolata oggi ristrutturata e collegata diversamente. Il viottolo, già stradicciola nell’ ’800 fino alla Croce e alla fontanella, continuava per Via del Calvario – all’inizio costeggiata da una roccia su cui erano visibili fino a qualche anno fa graffiti, simboli del Crocifisso - salendo dietro al fabbricato costruito all’inizio del ‘900 da Pietro Volpe ed ora abitato da Anamaria Volpe e da Anna Sbordoni moglie di Biagio De Felice. La traccia di quel viottolo si biforcava ulteriormente nella località “Noce Milano” diretta verso la “Prèta della Rosa”. A “Noce Milano” (Vedi nota 1, in fondo al testo) un nuovo tronco continuò in direzione della costruenda stazione ferroviaria divenendo “Via della Stazione”.
Qualcuno più vecchio di me, purché non sia rimbecillito-smemorato-scimunito, potrebbe correggermi e magari aggiungere dei dettagli; è possibile e non mi dispiacerebbe; però dovrebbe pure condividere l’amara constatazione per cui oggi, dopo quasi cent’anni, Cocullo ha perso più di mezzo nucleo abitato, che la popolazione si è ridotta di un decimo (urbanesimo, espatrio) ed ha perso persino la sua fisionomia: sono rimasti i vecchi (molti dei quali, fra l’altro, svernano in città) che, sfiorato o superato il secolo di vita, ci lasciano per sempre. In definitiva dopo il secondo conflitto mondiale, in particolare dopo il miraggio del “miracolo economico”, il paese continuò a vivere asfittico ma già era cadavere.
Note
(1) Non so se la carrareccia proseguisse dopo la stazione pure prima del 1880; comunque è presumibile che l’abitato non arrivasse lì poiché dopo oltre qualche decina di metri comincia la montagna verso Goriano e le casette della contrada “Noce Milano” furono costruite per i terremotati del 1915.