I Templari e le loro origini
(6a Puntata)
Gli Antoniani, i Celestini e le Confraternite
L’assistenza aveva generato il principio di solidarietà, il quale piano piano aveva portato alla nascita delle “Fratellanze” (forse fiorite sulle “Fraterie” celestine e perfezionate nelle “Confraternite”), composte in maggioranza da pastori benestanti (allora l’unica “industria” era fondata, specie nei paesi montani, soprattutto sulla pastorizia, e Cocullo, prima della moria del ‘600, ospitava circa ottomila pecore). Quelle associazioni solidali, dopo essersi organizzate, avevano creato depositi gestiti, per la determinante disponibilità di ricchi bilanci (Vedi nota 1, in fondo al testo). Di questi, qui, si dovettero avvalere gli Antoniani quando si stabilirono nell’“hospitale” per continuare ad assistere poveri, viandanti e infermi (2). San Celestimo aveva codificato questo precetto prima ancora di salire sulla “montagna santa” lanciando la “frateria”: unì i penitenti accesi dal fervore religioso con il collante dell’operosità e della carità solidale, sicché, grazie alla creazione di questo sacro stimolo, finirà per l’aggregare in Pii Secolari Sodalizi pure chi non apparteneva alle Fraterie chiamando “Fratelli” tutti, compresi i suoi monaci. Quando arrivarono qui, si fusero subito con i Templari già influenzati fortemente dai Celestini e avvenne il coagulo.
Mons. Corsignani scrisse nella “Reggia Marsicana” nel 1700 che l’eremo della Foce, tra Aielli e Collarmele era stato dapprima il rifugio di un evanescente romito, il Beato Giovanni di Foligno; invece è probabile che lui l’abbia confuso con un antico ed anonimo eremita, a meno che non si sia trattato del Giovanni discepolo di San Domenico di Foligno, il quale peraltro non risulta che si sia distaccato dal suo Maestro e se ne sia andato per conto suo. L’eremo, sì, esisteva e più tardi divenne la chiesa di San Marco della Foce la quale era menzionata nel 1239, che nella metà dello stesso secolo diventò una chiesa abbastanza ricca, e che successivamente, per la pressione del feudatario conte Ruggero I (3) figlio di quel Tommaso ch’era stato Gran Maestro dei Templari, fu data ai Celestini di fra’ Pietro del Morrone; ma dopo varie vicende i monaci che abitavano lì si spostarono nel monastero di Santa Maria della Foce, fra Celano ed Aielli. Scarto quest’ipotesi e cerco
collegamenti con il monastero di San Pietro Avellana, il quale era stato fondato da San Domenico (l’attuale nostro Patrono) e vi era andato poi a morire Sant’Amico, che io altrove ho definito l’ombra di quello. Secondo l’Arcivescovo Antinori, settecentesco metropolita pure della nostra Diocesi e corrispondente di storici illustri, il dente di San Domenico sarebbe stato portato alla chiesa di Sant’Amico – ora Madonna delle Grazie – nel 1392 dai frati della grangia casalana facendo partire l’incremento religioso e cattolico del culto cocullese dal 1300. Io ritengo che, fatta salva l‘ancestrale ascendenza, che si debba seguire questa versione, da me ventilata e poi autorevolmente ribadita dal professor Profeta. Recentemente la prof.ssa Nicolai, analizzando la struttura della chiesa di Sant’Amico (ristrutturata in quella della Madonna delle Grazie), ha concluso che essa è idonea ad accogliere i pellegrini, da cui però, aggiungo, nel ‘600 la reliquia di San Domenico fu portata alla parrocchiale di Sant’Egidio; infatti ancora due secoli dopo dell’intitolazione della chiesa a Sant’Egidio e poi a San Domenico diversi pellegrini si recavano alla chiesa della Madonna delle Grazie: negli atti di morte dell’Ottocento ho letto che l’8 agosto 1873 (cioè addirittura settant’anni dopo la duplicazione papale della festa dell’attuale Patrono) morì il bariscianese Carlo Campagna di 33 anni e il 24 maggio dell’anno seguente vi morì Agostino Sciarra di 69 anni, da Montecassiano (ambedue erano idrofobi). Rilevo inoltre che la costruzione della chiesa della Madonna delle Grazie coincise con un’ondata di peste che aveva portato su i frati della grangia e che allora il titolo lo aveva ancora Sant’Amico, ripeto “ombra” di San Domenico.
Appendice - Frate Giovanni
Ne ho già parlato, ma voglio ripetermi per sottolineare un importante aspetto appena adobrato e perché ritengo che le calamità (guerra, epidemie, regresso morale e umanistico) abbiano cancellato pure il ricordo di un Cocullese che ricopre un ruolo importante non solo in questa vicenda, ma anche nella storia delle religioni. Da giovane ricordai il raccontino di frate Giovanni che mi aveva fatto nonna allorché ero piccolo. La tradizione (e l’ho scritto) l’ho sempre considerata una cosa seria perché il fascino del passato arricchisce il bagaglio d’esperienza della vita vissuta e lo proietta nel presente e nel futuro: per questo i racconti non li ho mai “snobbati” (4). Il discorso sul frate riemerse molti anni fa dalla lettura della “Storia dei Marsi” dell’avezzanese Febonio: Alla notorietà di questo paese (Cocullo) ha contribuito un uomo molto religioso, D. Giovanni da Cocullo, uno dei primi frati celestini innalzato alla carica di prefetto generale dell’Ordine nel 1299… La frase m’incuriosì e volli approfondire: era interessante e fu confermata da Autori, studiosi e Abati, precedenti e successivi al prelato marsicano; addirittura il vescovo Corsignani registra due Giovanni: Giovanni di Cucullo de’ Marsi nell’A. 1269 fu Abate Mitrato tra’ Celestini, e poi Generale. (“Reggia Marsicana”, parte II, di P.A. Corsignani, riprod. anastat. dell’originale del 1788 a cura della Cassa di Risparmio de L’Aquila);
Gio: di Cucullo (un altro) fu Generale dell’Ordine de’ Celestini, e fiorì nell’A. 1299. (op. cit.). Ora io non starò a discutere sul fatto se quei religiosi fossero uno o due, anche se è possibile che lo stesso Generale fosse rinominato a trenta anni di distanza; ma ho il sospetto che Don Giovanni sia stato uno dei capi ereticali del movimento celestino più influenzato dai gioachimiti che non Celestino stesso, soprattutto poi deluso per il trattamento riservato a Celestino V da Bonifacio VIII. Altrimenti non mi spiegherei certe incongruenze: per es. il motivo per cui Ruggero fece la donazione ai monaci di San Nicola Ferrato (dipendenti del Vescovo) e non a quelli di San Rufino confluiti nella Congregazione di San Celestino riconosciuta da Onorio; o perché, come scrissero alcuni Abati, non si conosce il nome del successore di Pietro del Morrone, ecc.
Perché non recuperare queste importanti tradizioni non solo religiose? Ricordo che novant’anni fa la chiesa del Patrono (la più grande di Cocullo) era gremita, specialmente nelle ricorrenze solenni, al punto che le vecchiette ritardatarie, sapendo che nei banchi non avrebbero trovato posto, portavano con sé le seggiole le quali poi avrebbero occupato inevitabilmente gli spazi liberi, compresa parte della linea di separazione dei banchi. Poi un’impressionante diaspora ha colpito seriamente i rioni (sì, il paese era diviso in rioni) demograficamente più intraprendenti e laboriosi. Questa considerazione, certo, è una validissima attenuante per quelli che sono rimasti; ma possiamo stringere i denti e ristrutturare immediatamente la chiesa e renderla funzionale: solo così recupereremo la ricchissima tradizione folkloristico-religiosa che lega con un filo di perle l’immemorabile a San Domenico, e cesseremo di essere almeno, almeno, almeno masochisti e traditori.
Note
(1) Molto più tardi le Confraternite saranno private dei loro beni dai Napoleonidi.
(2) V. nota in cui ho scritto che nelle opere assistenziali gli Antoniani erano stati preceduti almeno tre secoli prima dai Benedettini, dei quali d’altra parte seguivano già la Regola.
(3) La nostra zona, compresa nel vastissimo feudo dei conti dei Marsi, fu popolata da numerosi Templari e da sostenitori celestiniani: nel 600 era nato a San Benedetto papa Bonifacio IV, promotore del monachesimo e sulla cui casa sarà costruito un monastero benedettino, e sul Morrone predicherà fra’ Pietro il quale avrà molti seguaci (tra cui il cocullese Frate Giovanni): in quest’atmosfera respirarono i Berardi-Ruggeri.
(4) A volte, naturalmente, ciò che si narra ai bambini, per distrarli, non ha fondamento e quindi non si discosta dalle fiabe; ma non sempre: ecco perché bisogna leggere.