Il mulino della Refóta
Il ricordo di un tempo passato florido è piacevole, specie se il pensiero ti porta al mondo che fu, popolato da gente laboriosa nella campagna lussureggiante.
I nostri avi videro scorrere molta acqua nel letto del rio Pezzana. Tumultuava quando in montagna si scioglieva la neve, ora solo in occasione delle piogge alluvionali. Fino alla metà dell’Ottocento scese a valle a volte tranquillo a volte impetuoso con una portata idrica notevole: nel 1837 (qualche anno prima, un’altra tracimazione aveva travolto due ponti (Vedi nota 1, in fondo al testo) e aveva affossato la fonte medioevale) una donna cocullese che stava lavando i panni su una riva del torrente fu travolta e scomparve tra i gorghi: ne ritrovarono il cadavere molto a valle, presso Anversa. In compenso tanti secoli fa pure qui si sfruttò l’energia prodotta dalla corrente. E il Pezzana, a dispetto dei suoi capricci, divenne indispensabile. Alla macinazione dei cereali l’uomo aveva fatto ricorso fin dai primordi, sia pure con mezzi rudimentali; solo intorno al Mille a.C. i Greci cominciarono a razionalizzarne i metodi, e più tardi introdussero l’uso dei palmenti (due blocchi di pietra, dei quali quello superiore girava su quello fisso sospinto dalla forza umana o animale: tra i due blocchi veniva schiacciato il grano). Successivamente furono impiegati la corrente dei fiumi o dei torrenti (mulini ad acqua) e poi il soffio del vento (mulini a vento) per azionare la macina. Nella seconda metà del 1700 furono inventati i mulini a vapore, ma solo nella metà del 1800 la tecnica della macinazione fu affinata e si trovò il modo di separare, durante il processo di produzione della farina, il grano dalla crusca con la conseguente riduzione in semole fini.
Il mulino della Refóta (2) sorgeva nell’angusta spaccatura originata, sotto alla frazione del Casale, dalla strettoia segnata nella valle ubertosa sul rivo della “Pezzàna” e dominata dagli opposti rilievi montuosi di Triàn’ e di Sil’rùp’. Molti bambini di un tempo ricorderanno i muri cadenti di quel vecchio mulino, che dovette funzionare egregiamente (prima che l’economia, allora prettamente agricolo-pastorale, smettesse gli abiti sdruciti senza poter indossare la parrucca dei tempi nuovi) press’a poco fino afertlile quando il torrente succhiò molta acqua alla montagna di Cocullo. Adesso le erbacce non sono riuscite a soffocare le tracce del rozzo e modesto stabilimento, tanto che nella “forma”, anche se ridotta a poco più di una pozzanghera, nella stagione estiva, ancora mezzo secolo fa, andavano a bagnarsi i ragazzi e le ragazze. Chi oggi osserva il misero, inaridito letto del rivo stenta ad immaginare che le sue sponde furono lambite dal notevole corso d’acqua la cui corrente fu necessaria per alimentare una struttura che ai nostri antenati avrebbe garantito la sussistenza; a fronte, però, come si è accennato poc’anzi, dei danni apportati dal corso d’acqua a carattere torrentizio, la cui considerevole portata, sempre abbondante (3) e spesso violenta, causò frequenti inondazioni che danneggiarono, a volte seriamente, tutte le infrastrutture e i servizi che sorgevano nei paraggi dell’alveo nonché il mulino stesso. Leggo dal Bastardello di catasto del 13 novembre 1611: …prete lavorate da metter’in opera alla fabrica alla refota del molino; la frase penso che alludesse ad una riparazione o ristrutturazione (“fabrica”). Più esplicita è la deliberazione 14 novembre 1735: Maestro Leonardo Lisciotti di questa Terra… si è costituito… al raccomodare si la Refolta che il capocanale del molino di questa Terra, è rimasta l’opera suddetta à Francesco Risii per persona da nominarsi… In primis che il mastro sia tenuto scomporre al difuori il muro della Rifolta sopra il cocchione dove esce l’acqua per il molino, e poi ricomporlo, e murarlo al pari del lato verso il dentro della suddetta Rifolta con le pietre grandi affacciate, – 2° Che debba riporre e murare le pietre, che dal muro della Rifolta sopra la sportella sono cascat’in terra ivi avanti, e risarcire bene quella muraglia di detta sportella al difuori della Rifolta, …– 3° Che dalla bocca della Rifolta, che stà sopra la sportella, e quattro dita sopra la più alta pietra, che stà al lato di detta bocca, debba il detto mastro tirar’il muro della Rifolta fin’all’altezza del muro, che stà sopra il Cocchione da dove esce l’acqua per il molino, facendo tal muraglia dall’una parte, e l’altra con le pietre grandi affacciate con riempire, e risarcire tutti li difetti, che in tal muraglia si trovassero …– Che debba scoprire il capocanale di detto molino dalla cannella fin’al capo di detto capocanale, cioè fin dove stà il muro à calce, e scoperto, risarcire al di dentro il medesimo Canale, e riporvi, e murare qualche pietra, che fosse inatta al servigio di quello, e successivamente dalla muraglia del molino fin’al capo, come si è detto, di esso capocanale far la muraglia all’un e l’altro lato, secondo viene da fondamenti, coprire poi esso canale, e sopra tal coperta far la scala di pietra per salire: con questo che debba anche il detto mastro far’il commodo con il gradini da piedi alla detta scala per principiar’à salire, e portar le muraglie de lati fin’al pari de gradini, (seguono altre quattro condizioni, come la possibilità offerta al Lisciotti degli ingredienti della calce “che si trova in Santo mando”, De Gentile Cancrius (LO).
Naturalmente le inondazioni portavano a valle i detriti: Adi 21 Aprile 1738- … è rimasta tal’opera ad Antonio di mascio mascioli per il …mondamento della Rifota del mulino…; col patto, che fra due giorni debba mondare la detta Rifólta di tutte le lordure, et altre materie portate ivi dall’eccessivo fluvio dell’acqua nel prossimo passat’inverno.
Il mulino ce lo rappresentano alcuni disegni rinvenuti fra le carte dell’Archivio comunale. Nella copia di una cartina (che sarebbe stata compilata nel 1601) comprendente una vasta area in cui sono segnati tutti i confini del territorio, il mulino comunale presenta nella parte anteriore due grandi fornici, mentre dal tetto spunta un comignolo. Quella cartina è rozza, né ci si poteva attendere un’eccessiva precisione ove si considerino l’economia e il tempo della sua formazione; tuttavia l’indicazione delle località (con quelle dei paesi limitrofi), nonché dei dettagli orografici, presuppongono un puntiglio che aveva suggerito, allora, all’autore un certo impegno ed al lettore di oggi di osservare la mappa con attenzione; non diversi, per scrupolo, i disegni che furono eseguiti oltre due secoli più tardi ad un anno di distanza l’uno dall’altro: il primo è contrassegnato dalla scritta seguente: La Presente Pianta è stata rinovata sopra di un’altra lacera (4), che si dice formata dal fù Donatantonio di Biase- Cocullo li 21 Decembre 1832- Giambattista Chiocchio copiò; nel verso della mappa si legge: Pianta de’ Confini delli Territorij di Cocullo, 1833. I disegni denunciano uno un apprezzabile lavoro artigianale di architettura rustica che qualche calamità intervenuta nel corso di due secoli ha costretto a tamponare onde rinforzare la costruzione, dando luogo a due porte (abbastanza piccole) sormontate da due (nell’ultima cartina da tre) finestre; l’altro attesta che nel secolo XVII il mulino era ben attrezzato e, anche se non era stabilmente abitato, svolgeva in pieno la sua attività. Naturalmente le vecchie mappe sono attendibili, sia perché esse sono state rinvenute e conservate nell’archivio comunale, sia perché nei secoli si sono verificati alluvioni e altri accadimenti: 1- la terribile carestia del 1764, che potrebbe aver generato per fame (5) anche qui una sommossa la quale si sarebbe ripercossa sull’incolpevole mulino, depositario del grano eventualmente destinato alle suore di Pescina, le quali allora riscuotevano un canone enfiteutico dall’ “università di Cocullo per le terre lavorate dai contadini casalani”; 2- il disastroso terremoto di Sulmona del 1706 e magari anche quello che colpì L’Aquila ottant’anni dopo; 3- le continue alluvioni: già dieci anni dopo la compilazione della prima cartina (cioè nel 1611) ne avvenne una. Dopo il 1833 la portata del rivo già aveva cominciato a scarseggiare da mezzo secolo, per cui il mulino della “Refóta” si apprestava a passare il testimone al moderno mulino elettrico di Pietro Volpe.
Restano le leggende fiorite pure sulle fonti religiose. I Bollandisti (benedettini) nella seconda metà del 1600 trascrissero e diedero alle stampe le “Vite coeve di San Domenico”, ove raccontano il “miracolo della farina”: quando passarono accanto al mulino S. Domenico e la sua fedele Giulia, stava entrando una povera donna con un sacco di grano sulle spalle. IL Santo chiese un pugno di grano per la sua mula; ma la donna pensò pure a lui ed il gesto caritateole le fruttò due sacchi di farina. Infatti la macina del mulino ingoiò il misero sacco di grano e ne restituì due di macinato.
Ma resta anche la realtà di un pezzo di storia municipale (i ruderi) che langue e sta per divenire vittima dell’aggressività dell’erba e degli sterpi. Eppure quel luogo - che è simbolo e che fu testimone di un mondo popolato da gente materialmente povera ma ricca di risorse fisiche, morali, spirituali, da gente cosciente dei valori e consapevole del rispetto reciproco – ridesta quel mondo illustrato in un’atmosfera serena.
Note
(1) Il volume notevole continuò a causare nel tempo parecchie alluvioni: nella Delibera 8 maggio 1870 si propose di “provvedere alla ricostruzione dei due ponti Comunali, uno Sotto S. Antonio e l’altro in Fonticelle”.
(2) Il termine “Refóta” fa pensare a qualcosa che ingoia (dal tema latino “fau”) o al verbo, sempre latino, “foveo” (animare, ripassare, lavare), che al participio passato suona “fotus”, rafforzato dal prefisso “re” con valore intensivo e ripetitivo.
(3) Almeno fino alla metà del Settecento: già negli anni Trenta di quel secolo i massari cocullesi avevano stabilito di servirsi, in alcune circostanze, di un mulino di Bugnara (V. Obbligazione del 5 febbraio 1732, riportata in Appendice).
(4) E’ un po’ lacera, ma è leggibile.
(5) Sin dal tempo dei Romani venne istituita, e fu mantenuta formalmente fino all’ultimo Settecento, l’”annona”, un istituto in virtù del quale l’autorità provvedeva ad incettare il rifornimento alimentare della popolazione e a distribuirlo alla stessa secondo i fabbisogni individuali; però questo sistema presentava il grave difetto di non poter svolgere sempre la sua funzione poiché, nel caso di carestie, il rifornimento non poteva essere garantito soprattutto per l’accantonamento furtivo di materie prime da parte di ricchi possessori, laici e religiosi, intenzionati a praticare l’usura.