Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#135 - 17/06/2024

Edia Fura, le "Vaschie di Tumo" e la "Cisterna Santa"
Toponimi e metafore

Quando Gabriele D’Annunzio, nato nel 1863 a Pescara, aveva quarant’anni comparve Alcyone, una raccolta di liriche riferite ai movimenti stagionali ed ai paesaggi relativi.
Vivace e ingegnoso com’era, sin da bambino dovette assistere all’affascinante spettacolo della transumanza: “… Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori [Vedi nota 1, in fondo al testo] lascian gli stazzi/ e vanno verso il mare./ Scendono all’Adriatico selvaggio/ che verde è come i pascoli de’ monti./ Han bevuto profondamente ai fonti alpestri…”. Anzi potrebbe avere fantasticamente arricchita la visione con i racconti degli avi. E questo spiegherebbe, oltre che certe espressioni puerili, commoventi e nostalgiche, il ricordo dell’epopea pastorale: “Ah, perché non son io co’ miei pastori?”.
Allorché il futuro vate tornò dalla Toscana per aver conseguito la maturità classica presso il liceo “Cicognini” di Prato, evidentemente raccolse il patrimonio aperto in questo scenario e perciò parla di “Abruzzi” al plurale, cioè a tempi remoti, quando la nostra regione era così frazionata:
- Abruzzo Ulteriore I con capoluogo Aquila e Abruzzo Ulteriore II con capoluogo Teramo, a seconda dell’ubicazione di queste città rispetto al Gran Sasso;
- Abruzzo Citeriore, con capoluogo Chieti, cioè al di qua del fiume Pescara rispetto ai confini del Regno (Italia Meridionale), che affonda anch’esso le radici negli ambienti svevo e angioino.

Lo scopo di questo brano non pretende di descrivere le vicende riguardo alla configurazione geo-politico-amministrativa della penisola; si sono avvicendate e si avvicendano tuttora le varianti nelle circoscrizioni.
Tornato in Abruzzo nel 1880 dalla Toscana, il vate conobbe il pittore Francesco Paolo Michetti, lo scultore Costantino Barbella e il musicista Francesco Paolo Tosti, insomma i pionieri del “Cenacolo” michettiano e nel “Convento” francavillese imparò a coltivare le leggende e le tradizioni della terra natia, ma pure il gergo pastorale: la “cisterna santa” de “La fiaccola sotto il moggio”, lo stesso “moggio” sotto cui si nasconde metaforicamente un segreto terribile, ma che nello stesso tempo echeggia la “morgia”- macigno- che il pastore transumante aveva evitato, la “genia serpigna” che è vecchia come quella dei baroni, i richiami al passato come “i tempi” della regina Giovanna (Giovanna D’Angiò Durazzo?).
Penso che fin da adolescente il Vate fu attratto dallo spettacolo affascinante delle usanze pastorali: è facile quindi arguire che qualche locato [2] lo abbia accontentato facendolo salire a cavallo per un breve percorso di un tratturo. Pertanto, quando nel 1889 andò a prestare servizio militare ad Alessandria nel reggimento “Cavalleggeri” è presumibile che già sapesse cavalcare. Diversi studiosi hanno affermato che il Poeta venne almeno una volta nell’Abruzzo appenninico intorno agli anni 1880-1889; ma sulle antiche “calles” incontrò troppe tradizioni che lui non volle ignorare.
Sulla montagna che segna lo spartiacque fra Cocullo e la Marsica, in un pianoro attraversato dal tratturo Celano-Foggia, in una località che fino al ‘700 era nota come “Vaschie di tumo” e che si presta ad un ospitale posto di ristoro per i pellegrini che andavano al Santuario cocullese (questo scenario si snocciolò nella memoria del giovane Gabriele), Egli trasse ispirazione per accomunare alla famosa tragedia “La fiaccola sotto il moggio” il rito preromano, manipolato, plasmato, adattato alle credenze religiose che si celebrava a Cocullo il primo giovedì di maggio.

Segue un brano della tragedia:
Il Serparo. Edia Fura [3] sono, nato di Forco che serviva il Santuario prima di me. E prima di lui c’era Carpesso, della nostra progenie; che forniva la cisterna santa. E nel tenitorio di Luco e in tutto il popolo dei Marsi non v'è nòvero delle geniture di nostro ceppo, ch’ebber la virtù. E si nasce col ferro della mula di Foligno, segnato su i due polsi (ci segna il Tutelare, fin dal ventre, a quest’arte): e la genìa serpigna riconosce la nostra padronanza; e siamo immuni… E non so da quant'anni è nella casa questo flauto d'osso di cervo, per l'incanto, ritrovato chi sa da quale de'miei vecchi, in uno dei sepolcri che stanno su la via di Trasacco: ché il nostro ceppo è antico da quanto quello dei baroni.
Gigliola. E vieni da Luco? E come avesti la novella? [4]
Il Serparo. Per le Palme, una femmina d’Anversa, ch'era a vendere orciuoli e d’ogni sorta stovigli, fece a mógliema: “La tua figliuola s'è sposata a uno barone.” Allora disse mógliema : “ Ventura ! E sarà vero? Andòssene agli estrani a far servigio: e si dismenticò. 0 Edia, quando porti le serpi al Santuario, scendi per la Pezzana e pel Casale fino ad Anversa, e là dimanda e vedi. E la dismemorata mi saluti…”

L’opera, come tutte le tragedie che si rispettano, ebbe un finale cupo; invece il terremoto del 2009, sei chilometri di distanza da Anversa, trasformò i sassi della figlia degenere, cioè della “femmina di Luco”, Angizia, in un disastro che costrinse la pietà umana a mettere in sicurezza la struttura del Santuario che l’ultimo Arciprete di Cocullo aveva definito “Gran Tempio”. Per cui resta da sperare che un nuovo quadro demografico sorregga lo sparuto gruppo di residenti attuali a raccogliere la pesante e ricca tradizione.

Note
[Nota al titolo] La cisterna, già “vasche di timo”, cioè il “fonte alpestre”, fornisce l’alimento indispensabile alla vita degli animali; la “cisterna santa” fornisce l’alimento necessario per rinvigorire la fede dei devoti.
[1] La poesia dei pastori è compresa nel “corpus” dell’opera “Alcyone”.
[2] Padrone di un gregge.
[3] Il brano è tratto da “La fiaccola sotto il moggio”, una tragedia dannunziana molto apprezzata dallo stesso Autore. L’ambiente dell’opera è quello di Anversa degli Abruzzi (sei chilometri da Cocullo), esattamente nel castello dei Sangro.
[4] Gigliola chiede al serparo umiliato dalla figlia indegna da quale fonte avesse appreso che Angizia si era unita ad un barone.

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