Ricordo del Professor Profeta
Il 6 gennaio è passato all’altra vita il Professor Giuseppe Profeta. Credo che sia stato commemorato da molti colleghi e allievi, tra cui il direttore di questa Rivista Roberto Grossi.
Aveva oltrepassato l’età di novantanove anni. Un altro folclorista abruzzese, Damiano Venanzio Fucinese, raccogliendo in tre volumi i proverbi e i modi di dire del suo paese, aveva scritto che “la vita è un’affacciata alla finestra”. Veramente il Professor Profeta si era affacciato ad un balcone e ha descritto tutto quello che ha visto e studiato: il paese dove era nato e cresciuto, Arsita, nel Teramano, alle falde del Gran Sasso, era stato l’ambiente ideale per stimolarne l’attività intellettuale favorendone l’orientamento verso la cultura popolare; conseguentemente, salvo che negli interventi pubblici e nella produzione letteraria peraltro esposta in maniera non eccezionalmente forbita, amava interloquire come la modestia e la semplicità gli imponevano. Quindi era scevro alla spocchia di alcuni suoi colleghi. Aveva vissuto le esperienze e le varie tappe della vita accademica – Preside di Facoltà in vari atenei, membro di associazioni culturali italiane e straniere - partecipando a numerosi convegni nazionali ed internazionali (Parigi, Mosca, Helsinki, Bucarest,…), era stato responsabile della sezione italiana della “Bibliografia internazionale del folclore” che si pubblica in Germania, aveva scoperto e recuperato gli otto volumi manoscritti della “Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia” di Giuseppe Pitrè; la sua opera grandiosa è senza dubbio la “Bibliografia delle Tradizioni Popolari Abruzzesi”. Questo lo dico per rivivere insieme il protagonista di questa storia, quello che manca lo hanno scritto i suoi biografi, professionisti e dilettanti.
Quando scompare una persona qualsiasi il groppo ti stringe alla gola, tanto più quando scompare un personaggio che ha avuto corrispondenza con te e confermato nel titolo in una parte del testo la tinta pastorale che tu avevi scorto (v. G. Profeta, “Un culto pastorale sull’Appennino contro i morsi di Lupi, Serpenti e Cani rabbiosi”, Libreria dell’Università Editrice, Pescara 1988).
L’illustre cattedratico non ha mai escluso l’esistenza di un precedente rituale nella festa di San Domenico di Sora soffermandosi con onestà sulla tradizione sorretta da documentazione credibile. Senza ricorrere a tutte le componenti del folclore, egli, il maggiore se non di tutti i tempi almeno di quelli contemporanei studiosi d’Abruzzo della disciplina, ha pigiato su tutti i tasti della cultura popolare: per cui io mi sono sentito confortato dal suo scrupolo e dalla sua serietà della adesione all’ascendenza marsa giacché ciò che ha pensato lo ha lasciato intuire. Infatti erano alquanto sibilline le frasi tramandateci attraverso gli atti antichi che giacevano nell’archivio comunale del mio paese e che lo stesso folclorista riporta con estrema cautela:
1- … una certa processione, che ricorre ogni due o tre anni più presto o più tardi, secondo il piacere del Arciprete… [siamo nel ‘700: era divenuto Arciprete della chiesa Don Crescenzo Arcieri (nacque nel 1710 e firmò il Registro dei Battesimi fino al 1780 inoltrato). In quel tempo si svolgeva a Cocullo, a maggio, una processione che così descrisse nel 1781 un sulmonese, certo Michele, al filosofo teramano Melchiorre Delfico]; 2- di più, un anonimo (Don Crescenzo o lo stesso Michele?) aveva spedito una lettera da Sulmona al re in cui lo implorava perché facesse chiudere l’osteria antichissimamente edificata vicino alla piazzetta di S. Domenico perché in essa si pratticano funzioni scandalose contro il decoro della religione in danno della Chiesa di S. Domenico (Archivio Comunale di Cocullo): evidentemente la cerimonia era troppo inquinata da scorie profane legate alla tradizione pagana salvata e manipolata dai pastori che in quella stagione tornavano dalla transumanza. Quelle frasi, nella bolla pontificia di duplicazione della festa a maggio, per me trovavano una spiegazione nel monito del vicario con cui si esprimeva una risposta positiva purché la solennità si celebrasse nel rispetto della liturgia. A tale conclusione potrebbe portare la lettura di altre opere del Professore come “Dente per dente”, “Bibliografia delle tradizioni popolari abruzzesi”, “Lupari, incantatori di serpenti e santi guaritori”, “Il serpente sull’altare”, “Le facce dell’anima del folclore”, ecc.
A questo punto intendo affidare un ricordo commosso al Maestro sottolineando la sua estraneità caratteristica dell’autentico uomo di cultura ad ogni forma di espressione letteraria rivelatrice di una produzione alterata da inquinamenti ideologici. L’Abruzzo ricorderà sempre con profonda nostalgia il Ricercatore e l’Umanista, mentre sulle balze rocciose del re degli Appennini echeggiano i canti e si riflettono le tradizioni del folclore.