Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#119 - 12/01/2024

Fantasticherie
Boschi, “fonti”, “cisterne”.

“Edia Fura / sono, nato di Forco che serviva / il Santuario prima di me. E prima / di lui c’era Carpesso, della nostra / progenie; che forniva la cisterna / santa. E nel territorio di Luco e in tutto il popolo dei Marsi / non v’è novero delle geniture / del nostro ceppo, ch’ebber la virtù. E si nasce col ferro della mula / di Foligno…” (G. D’Annunzio, “La fiaccola sotto il moggio”)

Rilevato che il poeta abruzzese, nato nel 1863, allude chiaramente alle cerimonie religiose e folcloristiche che una volta si svolgevano in modo eccezionale in un paese dell’Abruzzo aquilano, cerimonie che ora hanno perso la componente folclorica mentre langue quella religiosa; rilevato quindi che D’Annunzio si riferisce al Santuario associato alla mula di Foligno ed alla “cisterna santa” di un paese scomparso, a San Domenico di Sora, comincio la narrazione con un salto a ritroso verso i primordi per immaginare quel che successe alcuni millenni prima.
Ai primordi gli uomini, smarriti, si rifugiarono nelle grotte del bosco di Angizia per ripararsi dalle intemperanze di Giove Pluvio. Il lago enorme e turbolento spesso esondava distruggendo i villaggi rivieraschi e creando bacini e letti fluviali, come l’ex torrente della Pezzana il quale allora si chiamò Flaturno. Nei giorni più burrascosi quelli che erano riusciti a ripararsi nelle cavità delle grotte salirono sulle montagne tra la Marsica e la Maiella e qui Ercole consegnò loro la sua clava con cui si difesero dalle fiere e addomesticarono molte bestie selvatiche fra cui qualche grosso lupo che molto più tardi sarà chiamato “pastore abruzzese”; nei periodi di calma inventarono la transumanza verticale guidando ai pascoli alti le poche pecore che avevano racimolato. Così il Flaturno era diventato il legame tra le propaggini della contea dei Marsi, cioè tra la baronia di Pescina e l’enclave nella terra peligna, ove si accorsero che strisciavano le serpi di Angizia le quali forse le erano sfuggite per riparare nel territorio di Ercole. Da allora amarono pure quella terra il cui raggiungimento li costringeva a salire e a ridiscendere da Palancaro, Forca d’Oro, ecc.
Intanto “antichi padri” avevano tracciato le “calles” ai pastori dannunziani: si spinsero in varie direzioni, soprattutto nelle calde pianure della penisola.
Quando scese Edia erano passati millenni e la tradizione era radicata [Vedi nota 1, in fondo al testo], grazie alla tolleranza distratta e traballante dei Longobardi e dei Normanni che permisero il coinvolgimento con la religione delle tradizioni profane.
Quando il vate descrisse la transumanza nel mese di settembre, partì a ritroso, cioè al momento del distacco dei pastori dai propri paesi; ciò offriva uno scenario emotivo molto suggestivo e poetico. La coreografia partiva dai “fonti alpestri” che rinfrescavano con “sapor d’acqua natia” i protagonisti dell’impresa prima di scendere in pianura, verso il mare, verde “come i pascoli dei monti”: verde che poi si perde nel “tremolar della marina” e si confonde nello “sciacquio, calpestio, dolci romori”.
Non so se gli amici del Circolo Michettiano siano arrivati a cavallo fino a Scanno dove si celebrava, però al contrario, la solenne festa della “remenuta”, cioè del ritorno dei pastori. Ma questo cerimoniale impastato di solidarietà paesana e del trionfo della civiltà pastorale si svolgeva, sia pure in modi diversi, anche negli altri paesi e con scorie di pseudo-religione, almeno fino alla fine del Novecento.
La nostalgia dei discepoli e per i discepoli di Ercole si diluisce nei “dolci romori”, mentre nella grotta della divinità italica [2] echeggiano soffocati una condanna ed un rammarico.

Note
[1] Alla fine dell’Ottocento le serpi ancora strisciavano dentro la chiesa, ma solo qualche decennio dopo questa usanza fu eliminata e nel 1824, con l’autorizzazione pontificia a duplicare la festa a maggio, mese del ritorno dei pastori dalla transumanza, era stato eliminato anche il rituale profano dell’osteria, che si svolgeva parallelamente alla cerimonia religiosa.
[2] Il Salmon, accademico canadese, parrebbe far risalire il rito addirittura ai tempi pre-omerici per via di Kerres o Cere con la divinità dei morti ad essa connessa! Infatti così scrive: “…nell’Italia rurale certe pratiche religiose dovettero certamente sopravvivere, e non è escluso che certe cerimonie che si celebrano tuttora, come la festa dei Serpenti a Cocullo (peligna) e la festa dei Ceri a Gubbio (umbra), con le loro caratteristiche essenzialmente pagane, possano essere una lontana eredità in onore di Angizia e Kerres” (E.T. Salmon, “Il Sannio e i Sanniti”, Einaudi 1985, pag.176).

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