Pagus e Borgo
Parte Prima
In un lavoro in corso di pubblicazione (?) accennai o parlai, almeno nel “pagus”, di centro fortificato, considerando che avevo notato in quasi tutte le abitazioni, comprese quelle semidistrutte, due uscite: una o più su una via ed una o più su un’altra via, sia nel nucleo abitato più alto, che in quello più basso. La miglior conservazione, prima della discutibile ristrutturazione recente del nucleo più basso, fa presumere che questo abbia opposto maggior resistenza all’aggressore. Ma quando e come e perché fu fortificato? A questo proposito formulo tre ipotesi: guerra italica, guerre di religione, turbolenze politiche e banditismo.
Prima ipotesi. Mons. Corsignani scrive: “Erano anche presso a Marruvio per la parte de’ Peligni le tre antichissime ragguardevoli Città Milonia, Plistia e Fresilia.” E cita Petrarca: “…fuisse Marsorum in confinio Samnitium, et Pelignorum positam. Itaque in Samnitium, Pelignorumque confiniis fuere praedicta Marsorum Oppida, vel Urbes, Milonia, Plistia, Fresilia…” (Nulla è più certo che Milonia fosse situata al confine dei Marsi con quelli dei Sanniti e dei Peligni. Pertanto le predette città di Milonia, Plestilia e Fresilia, fortezze o città dei Marsi, furono ai confini dei Sanniti e dei Peligni [Vedi nota 1, in fondo al testo]).
Ad eccezione di Milonia, che pare aver avuto una localizzazione abbastanza precisa sul territorio della confinante Ortona dei Marsi, tra le frazioni di Cesoli e Rivoli, non è stata chiaramente individuata l’ubicazione di Plestilia e Fresilia. In verità alcuni centri rivendicano quell’ubicazione; tutti erano situati nella regione marso-sannitica, tenendo presente che quegli antichi nuclei MARSI si trovavano “al confine dei Sanniti e dei Peligni”, che Cocullo allora era l’ultimo paese compreso nel territorio dei Marsi verso i Peligni (ad ovest) e vicino alle ultime propaggini settentrionali del territorio sannita (a sud) e che un reparto MARSO in fuga [2] cercò di riparare verso i luoghi di partenza, cioè verso le roccaforti vicine a Milonia (“li ricacciò nelle loro città fortificate”- Livio).
Un illustre archeologo contemporaneo, per conto dell’Istituto Nazionale delle Ricerche, ha fotografato dall’aereo, con i raggi infrarossi, la zona circoscritta a Superequo, Corfinio e Sulmona: Nella catena montuosa che separa la valle del Giovenco dalla valle di Cocullo, a Campo Castino, a S. di Serra Palancara, sarebbe da localizzare (su un cocuzzolo fortificato a quota m.1.617) un centro fortificato peligno (v. Grossi, “Profili di Archeologia Marsicana 132”; Letta, “Fucino cento anni” 111). La notizia risale ad A. di Pietralerio, “Agglomerazioni delle popolazioni di un importante centro fortificato della Diocesi dei Marsi (Campo Callino!”). Ancora: …nella frazione di Casale rimangono molte tracce di un importante pagus dal periodo preromano fino all’epoca imperiale e aggiunge: …questi elementi (monili nelle tombe) risalirebbero ad una fase più antica, al VI/V o al più tardi il IV secolo a. Cr. (Van Wonterghem “SUPERAEQUUM CORFINIUM SULMO”, della Collana Forma Italiae, Olshki Ed.)
Quando ero bambino (non è un ritornello) la nonna paterna aveva un vago ricordo di ciò che avevano tramandato gli “antici”, gli avi, e cioè che in tempi lontani un’enorme frana [3] sarebbe scesa dalla montagna all’estremo confine meridionale di Palancaro sui pressi della frazione Casale, dove poi sarebbe sorta la leggendaria Trianèlla. Fin qui il racconto.
Seconda ipotesi. Nei Regesti di Montecassino trascritti telematicamente leggo che il 5 aprile 1293 “alcuni cittadini di Sora si dichiarano arbitri di certi redditi e servizi annuali passati poi al monastero di S. Pietro. (ind.VI, a.IX, Carlo II, Sora”.
Tra gli anticipatori della riforma gregoriana erano stati gli umbri San Domenico e Sant’Amico: ambedue furono anacoreti a Sant’Anatolia e di lì scesero insieme all’abbazia di S. Pietro Avellana (Isernia). Il monastero era stato costruito da San Domenico e Sant’Amico vi restò fino alla morte. Nel 1104 Pasquale II aveva canonizzato san Domenico e una bolla corografica diocesana di quattro anni dopo citava una chiesa cocullese e non il titolo; sappiamo soltanto da cronisti attendibili che quella chiesa era tenuta da chierici.
Gli Angioini avevano cominciato ad espandere l’influenza su Montecassino, da quando questo monastero aveva dato alla Chiesa molti santi e pontefici colti e autorevoli e Carlo II d’Angiò cercò di approfittarne e ottenere l’autorizzazione da un papa (allora la sede apostolica era vacante da almeno due anni e il Sacro Collegio pensava più alle beghe di famiglia che ad eleggere il papa): venne dalle parti nostre e dalle parti ciociare per andare a prendere sulla Maiella Pietro del Morrone, ritenuto molto idoneo a svolgere il ruolo di San Pietro, consacrato a L’Aquila il 29 agosto 1294. Dopo la consacrazione, forse per neutralizzare le mire angioine, il nuovo papa passò per Montecassino e aggregò i monaci, alquanto dissidenti, alla sua Congregazione [4].
Gli Spirituali della Maiella, da San Domenico (per il suo rigorismo benedettino?) a San Celestino V, erano radicati fortemente e caparbiamente con il collante della roccia delle loro montagne all’arcaismo evangelico. I fautori della “ecclesia carnalis”, pur richiamandosi al Vangelo, avevano individuato l’unica via d’uscita per evitare che l’edificio costruito da San Pietro, cioè l’istituzione ecclesiale, fosse frantumato almeno dalle eresie più pericolose: se San Celestino fu il “Pastor Angelicus”, Bonifacio VIII fu uno dei più colti, giuridicamente e teologicamente, pontefici raffinati. Dopo aver tergiversato, i papi si affidarono agli Ordini dei monaci più rispettosi delle Sacre Scritture e nel contempo rispettosi dei rappresentanti del primo Apostolo.
Dopo la riforma gregoriana tra le personalità più inclini alla svolta bonifaciana fu Bonifacio IX [5], il quale aveva contato sui Francescani Minoriti, contraddetto poi in parte da Gregorio XI, e dal cardinal Tomacelli. Alla fine prevalse la corrente olivetana (Bonifacio IX) e, mentre l’abbazia di Montecassino era vacante dell’abate (infuriava la peste), nella nostra Diocesi da Montecassino fu incaricato della sede vescovile un francescano minorita definito “manesco”, se ricordo bene, da un cronista. Allora i monaci di Montecassino, tramite la grangia casalana, inviarono alla chiesa di S. Amico di Cocullo due monaci con le reliquie di San Domenico (penso che si sia trattato di una strumentalizzazione di qualche monaco avellanita – rifugiatosi a Montecassino dopo l’istituzione della sua commenda -, per la dolcezza e la vocazione caritativa di S. Amico).
Nel 1316 era priore del monastero di S. Pietro Celestino a Sora fra Bartolomeo da Trasacco: “Il monastero apparteneva all’ordine dei Celestini. Il 23 settembre del 1315 il monastero risultava formalmente costituito. Il priore fra Bartolomeo da Trasacco aveva una sua comunità. In tale data nel cenobio sorano, alla presenza del superiore e di tutti i confratelli, ebbe luogo una cerimonia di professione religiosa” (il problema concerneva il dissidio tra Francescani Spirituali e Francescani Minoriti?). Qualche secolo dopo il Mille, mentre infuriavano le lotte fra religiosi, particolarmente tra monaci e chierici, tra papi e antipapi, tra re e imperatori, accadde a Cocullo un evento che ne turbò profondamente la vita religiosa e che forse contribuì a sconfiggere un’eresia, fra le tante.
Nel 1392, infatti, Bonifacio IX aveva istituito la commenda di alcune abbazie e nello stesso anno, il 22 agosto, i monaci di Montecassino avevano portato a Cocullo, nella chiesa di S. Amico, come ho già affermato, le reliquie di S. Domenico da essi tenute inizialmente nella grangia dei Casali.
Nella “Corografia dei Marsi” l’Antinori (metà ‘700), il quale affermò di avere attinto dal Gattula, scrisse: Nel 1392 dal Monastero di S. Pietro del Lago si mandavano monaci a regere la cura delle Anime nel castello di Cocullo colle patentali dell’Abate Casinense, e risedevano nella Chiesa di S. Giovanni in Campo. Quindi, essendo morti i Monaci Andrea e Bartolomeo di Anversa, l’Abbate conferì Rettoria ai due altri Monaci di San Pietro, Vincenzo e Marino, pure di Anversa, in Beneficio ecclesiastico curato e ne commise il possesso a Angelo di Casale di Bugnara, Monaco di S. Pietro medesimo. Da quei Monaci s’era propagata in Cocullo la venerazione di S. Domenico Abate e fondatore del Monistero di S. Pietro.
Parte Seconda
Terza ipotesi. Quanto alle turbolenze politiche e al banditismo riporto alcuni brani che scrissi sul libro “Storia cronistoria e leggenda a Cocullo”, precisando che alla fine del 1799 nel Regno delle Due Sicilie si profilò la formazione di due partiti importanti: borbonici e antiborbonici.
“Alla fine del 1798, consigliato da un certo malcontento popolare – da cui sarebbe sorta l’effimera Repubblica Partenopea – ingigantito dallo spettro della ghigliottina su cui era finita la cognata Maria Antonietta, Ferdinando I scappò in Sicilia dando libero spazio all’occupazione francese. Il re lasciò come vicario Francesco Pignatelli (poi sostituito dal card. Ruffo), che però, forse impaurito dall’invadenza di Napoleone, fece un armistizio con i Francesi, i quali in realtà dominarono importando le loro leggi e i loro ordinamenti in uno Stato ormai governato da filofrancesi che dovevano far rispettare gli oneri imposti con quell’armistizio: furono questo stato di cose (esasperato da tributi e coscrizione obbligatoria) ed il sanfedismo ad accrescere legittimismo e masse. Nell’estate del 1799 Ruffo riprese Napoli e Ferdinando I vi tornò esattamente tre anni dopo, ma per regnare all’ombra dell’imperatore francese e dei suoi regolamenti; almeno fino agli inizi del 1806, quando le vittorie del Bonaparte imposero la cessione del Regno al fratello Giuseppe e la seconda fuga di Ferdinando I in Sicilia. Poi il regno passò a Murat, nell’estate 1808, perché Giuseppe passò sul trono di Spagna. La corona restò sulle teste dei Napoleonidi fino al 1815, anno della fucilazione di Murat e della sconfitta di Napoleone a Waterloo: dopo tornarono, con la Restaurazione, i Borbone e rimasero fino al 1860, quando nacque lo Stato Unitario. Dalla fine del 1700 al 1815, insomma, anche in questa periferia non molto lontana, ma resa lontana da una orografia tormentata, imperò una situazione torbida ed equivoca, resa ancor più equivoca da una specie di forzato condominio tra la corona e gli ordinamenti repubblicani importati dai Francesi, una situazione che se nella capitale aveva generato la breve Repubblica Partenopea, in periferia era appena tollerata perché qui il lontano vento dei rivolgimenti istituzionali giungeva, attenuato, con l’immagine di un re che in fondo per molti esprimeva la conservazione delle terre e dei costumi secolari. Da quella situazione, da quell’ambiente sbucarono – per non allontanarci dal nostro paese – le masse di Pronio e di Piccioli, che più volte finirono col confondersi con quei gruppi di fuorilegge (i quali perpetuarono uno dei più antichi fenomeni) costretti a vivere fuori della società e per questo a procurarsi cibo e sostentamento con vari espedienti. In verità l’introdacquese Giuseppe Pronio pare che avesse ucciso un suo commilitone durante il servizio militare, cioè prima di diventare un bandito e un capitano di ventura; quando nel 1798 aderì alla causa borbonica, per gli uni era un violento assassino, per gli altri un valoroso comandante militare degli Abruzzi; invece Ermenegildo Piccioli – che era di Navelli e operò prevalentemente sul Sirente – apparteneva ad una famiglia agiata e gentilizia, per cui possiamo affermare che si diede alla macchia per puro idealismo, anche se la sua banda poi si macchiò di delitti efferati. Ora sottolineo quanto ho detto poc’anzi. Nella tarda estate del 1806 egli fece un’incursione con la sua massa a Cocullo onde reclutare uomini “ben intenzionati” per la causa dei Borbone: le sue minacciose pressioni sortirono un effetto parziale giacché aderirono solo Francesco de Sanctis, Domenico e Leonardo Gentile. Nelle parole del suo bando traspare chiaramente la confusione che regnava in quegli anni: …gli individui ben intenzionati che vorrebbero venir, ma sono arretrati dalle minacce de’ nimici di Ferdinando IV … e minacciava “sacco e fuoco” nel caso che le autorità non avessero ottemperato ai suoi ordini. Non soddisfatto dal numero delle adesioni, dopo una breve diversione a sud-ovest, tornò con la banda nei pressi di Cocullo e si accinse ad invaderlo, con il pretesto di procurarsi soldi e vettovaglie. In avanscoperta mandò un ceffo della torma con le richieste ultimative. Forse se fosse stato un autentico bandito si sarebbe comportato diversamente: avrebbe assalito il paese, senza tanti complimenti. L’emissario fu accolto dalle forche dei popolani e fu ucciso; quindi la folla inferocita attaccò l’intera banda e la ricacciò verso le montagne dietro la Selva. La resistenza dei Cocullesi era stata dettata da semplice patriottismo antiborbonico o, piuttosto, dal fatto che durante la prima invasione molti paesani filofrancesi erano stati trasportati in montagna per essere fucilati? Per fortuna poi lo sterminio non avvenne e ci rimise la pelle soltanto il povero delegato di polizia Giovanni Berardo (o Giovan Battista?) Squarcia, mentre il suo amico Giampaolo Gentile, “Dottor Fisico” e Luogotenente, se la cavò pagando un riscatto di 600 ducati (restituitigli parzialmente, nella misura di 300 ducati, dai Francesi nel 1808, perché secondo le informazioni “il dottore dimostrava attaccamento al governo Francese”). Altri interrogativi si impongono: perché il Piccioli aveva preso di mira Cocullo minacciando di metterlo a sacco e fuoco, e perché Rua del Sacco porta quel nome? Nella zona di quella “rua” (manco a farlo apposta è un nome francese, come se le fosse stato appioppato fra il 1806 e il 1815) abitavano le famiglie Squarcia e Renzi, notoriamente filofrancesi soprattutto dopo il 1800, un rampollo della quale ultima famiglia, Giovanni Francesco, nel 1744 aveva sposato a Cocullo Teresa Piccioli, di Navelli: che il borbonico Ermenegildo non avesse consumato delle vendette?
Nel 1802 abbiamo la riprova della confusione [6] a cui ho accennato dianzi. Il Borbone ancora regnava a Napoli, ma chi governava erano i transalpini attraverso governi prima filoinglese e poi, soprattutto, filofrancese che era stato costretto dagli eventi a nominare, anche se trovava il tempo di esercitare una repressione seguita agli avvenimenti del 1799: a quel tempo risale il “Libro in dove si scrivono le scritture attenenti all’Università di Cocullo composto di carta col bollo in esecuzione de venerati reali ordini eseguiti dagli attuali publici rappresentanti della medesima” (queste pagine han tutta l’aria di sostituire il vecchio “Libro de Conseglio” e il “Libro delle Obligazioni” in attesa che si istituisse quello delle delibere comunali). Che contrasto fra quei “venerati reali ordini” e gli “attuali publici rappresentanti”! Si direbbe che il clima favorevole all’assassinio del figlio del sindaco non si ripercuotesse sulla vita del paese e che l’orologio continuasse imperterrito a scandire le ore; tanto più che nel 1803, poco tempo dopo il fattaccio, furono esatti dall’interiori dell’Animali necri [7] della carità di S.Antonio carlini 18 e grana 5. Eppure non era così: per portare gli denari nell’Aquila nella regia Tesoreria l’Università sia tenuta di dare l’accompagno di due persone sino a Forca di Mora passo sospetto (24 novembre 1806); inoltre nelle Uscite in Bilancio dello stesso anno si conferma e si specifica che vennero i Briganti in massa e al capo massa Piccioli [furono] dati 340 ducati. Sintomatico delle turbative politiche è in questo senso quanto scrisse un funzionario del governo all’autorità provinciale il 22 settembre 1814. Un consigliere comunale di Cocullo, Cesidio Caiazzo, aveva lamentato le disfunzioni e il locale disordine amministrativo: egli aveva prodotto un ricorso [8] all’autorità superiore e questa aveva incaricato il Consigliere Distrettuale raianese (molto probabilmente), Gaetano Antonucci, di svolgere indagini sul conto dei vertici dell’amministrazione comunale, cioè del sindaco Giampelino Renzi e del vicesindaco Domenico Trelance. Scrive l’Antonucci all’Intendente: Nel prosieguo delle indagini a carico del Signor Giampelino Renzi Sindaco e, del Signor Domenico Trelancia primo Eletto del Comune di Cocullo, quando credeva essere al porto, mi trovo in berascoso mare. Dopo aver inteso quel Decurionato, mi deliberai a sentire cinque persone probe del Comune medesimo incapaci a mentire, e lontane da ogni spirito di partito. Avendone chiesta nota all’Arciprete, mi propose alcuni, che Venuti alla mia presenza dissero di essere chi congionto, chi Compare del primo Eletto, e chi conobbi dipendente del Sindaco. Mi astenni esaminarli, e di bel nuovo premurai detto Arciprete per averne altri delle qualità sopraindicate. In risposta mi annotai Marco Gentile, Francesco Gentile, Baldassarre Risio, Simone Chiocchio, Donato Gentile e in averne appena disposta la chiamata, quel Supplente della Giustizia di Pace Signor Giampavolo Gentile a 20, del corrente mese, officialmente mi avverte convenire il titolo di probo al solo Simone Chiocchio: che Marco Gentile come di torbido cervello non è stato giammai riputato per tale; Francesco Gentile della dipendenza del Sindaco; Baldassarre Risio Persona misera, e vile, marito della Balia di un figlio del Sindaco [9]; Miserabile parimenti Donato Gentile. Desumo perciò essere quel Comune scisso in partiti. Or dovendo io per altro canale venire a giorno delli Uomini probi, stimo non rimettere a S.V.Ill.ma per ora li Atti delle sudette indagini, nella speranza di poterle completare fra pochi altri Giorni. Se poi altrimenti stima, mi farò un dovere prontamente ubbidirla. Le bacio intanto rispettosamente le mani. Gaetano M. Antonucci (ASA).
Il rapporto del Caiazzo e le informazioni dell’Uditore, terminata l’indagine ordinata dall’Intendente, provocarono la sospensione dei “municipalisti”. L’Arciprete a cui il funzionario aveva chiesto informazioni, successivamente rivelatesi insoddisfacenti, era ancora quel Don Giovanni Arcieri che prima aveva reclutato uomini per l’amico Pronio e poi, in seguito al cambiamento di regime, li aveva perseguiti. E molto probabilmente Don Giovanni ebbe il tempo, dopo la Restaurazione del 1815, di tornare al suo vecchio ideale borbonico, visto che, come “Arciprete Curato”, firmò lo “Stato delle Anime” del 1816 (morì nel 1821, per ironia della sorte un paio di mesi prima di Napoleone)”.
Note
[1] Anche scrittori antichi, fra gli Italici, e pure fra i Romani, quali Livio, accennano a questa storia. Livio aggiunge che le sopraffazioni romane nell’accerchiamento di Corfinio e della marcia verso il Sannio i presidi di Plestilia e Fresilia si ritirarono su Milonia.
[2] Il dittatore (Marco Valerio Massimo), mossosi con l’esercito, con una sola battaglia sbaragliò i Marsi. Li ricacciò quindi nelle loro città fortificate di Milionia, Plestina e Fresilia, che entro pochi giorni conquistò e, dopo aver condannato i Marsi, a cedere una parte del territorio. (“Ab urbe condita”, Livio X 3) (Nel 301 a. Cr. i Marsi e gli Etruschi erano insorti contro Roma).
[3] Nelle tradizioni la fantasia manipola e può alterare gli accadimenti, per cui una calamità può essere trasformata da distruzione bellica a frana.
[4] Provvedimento poi revocato da Bonifacio VIII.
[5] Bonifacio IX, nato Pietro Tomacelli (Casarano, 1350 circa – Roma, 1º ottobre 1404).
[6] Nel 1817 l’autorità religiosa manifestò la volontà di contravvenire alle leggi napoleoniche, formalmente vigenti. Il 12 giugno 1804 in Francia era stato emanato l’editto di Saint-Cloud che stabiliva di seppellire i cadaveri dei cittadini di qualunque classe in fosse anonime fuori delle città.
“Cocullo non era una città morta, ma un povero agglomerato che doveva attendere tredici anni per avere un paio di miseri avelli alle falde del Curro. Intanto l’autorità religiosa, in dispregio delle leggi francesi, temporeggiava e inviava ai compiaciuti superiori petizioni che tendevano a richiamare i sistemi passati: Eccellenza. Il Sacerdote Emidio Gentile le rappresenta che, giusta le recentissime disposizioni dell’E.V., di poter seppellire i cadaveri de trapassati nelle chiese dell’abitato. In questo Comune, vi sono tre Chiese con tredici seppolcri, i quali sono sufficienti a fare l’altarnativa per tutto l’anno, atteso la scarsa popolazione di 1300 anime, la buona salute che si gode, in guisa che passano dei mesi che non perisce alcuno. Per questo, e l’altra ragione che l’oratore à la sua sepoltura gentilizia chiamata de’ Mascioli … Meno di un mese dopo l’Intendente autorizzò Don Emidio a seguire la procedura desiderata: Anche qui in Aquila coloro, che sono nel predetto caso non sono tenuti a seguire l’ordine progressivo sepoltuario… (ASA).”
Nel 1830 il parroco Don Valentino Renzi scriveva all’Intendente (v. ASA) perché a sue proprie spese aveva ordinato un “Cassa” “per celare in detto frattempo i menzionati Cadaveri che solevano restar esposti in mezzo alla Chiesa; per cui erano d’inciampo all’esercizio delle Sagre Funzioni…”
[7] I porci: si trattava delle interiora volgarmente chiamate “introssici”.
[8] …l’Amministrazione Comunale è nel massimo sconcerto; parole indirettamente confermate dalla successiva relazione dell’Uditore del Consiglio di Stato di Avezzano: …fra quella Popolazione vi è qualcuno propenso per il dissordine e per l’insubordinazione…
[9] Nel 1808/’09 il Risio era stato affittuario insolvente dell’ “Osteria da Capo”: doveva al Comune 50 ducati, anticipati dal Sindaco Giampietro Squarcia, il quale però nel 1811 produsse ricorso per riaverli.