San Celestino
Affrontare il tema della vicenda celestiniana sarebbe un compito troppo arduo: traccerò alcuni aspetti che ci riguardano dopo aver copiato un brano, tratto dal libro di Alessandra Bartolomei Romagnoli “Una memoria controversa – Celestino V e le sue fonti”, SISMEL, Ed. del Galluzzo, Firenze 2013. La professoressa “fotografa” magistralmente la figura San Celestino (e degli eremiti) nel capitolo dedicato alle agiografie medievali. Va considerato che sull’ “enigma celestino” abbiamo poche notizie certe e molte leggende pervenuteci da apocrifi:
“La trama biografica è esilissima… Secondo uno schema collaudato dell’agiografia duecentesca, l’inizio della conversio di Pietro si poneva infatti sotto il segno del typus peregrini; con un compagno si diresse alla volta di Roma per ottenere l’approvazione del suo propositum penitenziale, ma, dopo un solo giorno di cammino, il socius tornò indietro e Pietro “remansit solus”…
La trama narrativa è molto semplice ed essenziale e il ritratto del santo è costruito secondo una struttura agiografica che sembra ritornare alle radici stesse del monachesimo, a quella Vita Antonii del grande Attanasio che, sin dal IV secolo, aveva fornito un mito potente a tutti coloro che cercavano strade in cui perdersi e ricominciare: l’abbandono della famiglia e dei luoghi abitati, la separazione, anche fisica, dal mondo, l’oltrepassamento delle frontiere, il cammino a oltranza in direzione di una sempre maggiore solitudine, alla ricerca di un “vuoto”, ma solo apparente, in realtà carico di insidie, tentazioni, allucinazioni. Nel passaggio a Occidente il modello antoniano aveva subito degli aggiustamenti: allo spazio metaforico del deserto egiziano l’Europa aveva risposto con le profondità silenziose delle sue foreste e delle montagne, il percorso si era modellato come ascesa e superamento dei limiti più alti della natura. Ma, più in profondo, la riflessione occidentale aveva tentato di offrire una soluzione al conflitto tra azione e contemplazione, e nel contempo di stemperare le venature anarchiche di una forma di vita religiosa sovente sottratta al controllo delle strutture regolate dell’ordinamento ecclesiale. Sin dalle origini, nella protoleggenda di san Martino di Tours, Sulpicio Severo aveva proposto una mediazione tra modello monastico e modello episcopale costruendo il singolare ritratto di un vescovo-asceta, dove l’eremitaggio non escludeva il protettorato cittadino. E anche in seguito, con il recupero su vasta scala del fenomeno nei secoli XI e XII, i grandi teorici della vita solitaria avevano cercato di disciplinare limiti e gradi dell’esperienza, disegnando il periodo di fondazioni insulari in cui contenere la UBRIS (distacco dal mondo) dei solitari, sempre ai margini, ma all’interno di luoghi riconosciuti. Sintomo di una crisi e di una inquietudine spirituale profonda, la scelta rinnovata della solitudine in questo tempo non si era dimostrata impermeabile alle tensioni di riforma del tessuto ecclesiastico.
Purificandola dalle interpolazioni occidentali, lo schema agiografico del “De Vita sua” sembra invece recuperare l’idealità del deserto nel suo testo radicale e primitivo, anzi ne rafforza le posizioni binarie, disegnando il programma di un ritorno allo stato selvaggio. La polarità che regge l’intero racconto è il conflitto essenziale tra natura e cultura. Pietro lascia la patria, gli affetti famigliari, ma più in profondo il mondo della civiltà, dell’organizzazione sociale e del lavoro agricolo. Come questo avanza, lui arretra: “Verum quia hic querebat semper solitudinem et omnes silve, que fuerant circa locum, destructe erant et ab hominibus culte, recessit ab eo loco et accessit ad montem Magelle, et ibi invenit quandam criptam magnam, que nimis placuit ei” [Vedi nota 1, in fondo al testo]. La contrapposizione è evidente anche nel rifiuto dell’animalità domestica: l’eremita coabita in una santa indifferenza con rettili e scorpioni…
Alla fine del Duecento l’Autobiografia indica una frontiera ulteriore: disegna un grado zero dell’esperienza e decostruisce i simboli dell’eroismo eremitico. Il santo non si qualifica per le sue conquiste, ma per le sue perdite successive… Semplicemente, si ritira. La separazione dal mondo è totale, preti e chiese sono assenti. Roma è lontana, il rapporto con Dio, solo e unico maestro, senza mediazioni…”
Coincidenze
1- Don Giovanni di Cocullo, l’eremo e il serpe (già scrissi che il serpe è simbolo degli eremiti e allora San Domenico rappresenta tutti gli eremiti dal Mille in poi, altro che blasfemia!), e un disegno secolare, da me rinvenuto nell’Archivio Comunale, sono figure che mi suggeriscono di formulare alcune considerazioni. Scrisse nel 1700 Monsignor Corsignani, vescovo della nostra Diocesi, che a Cocullo erano nati due monaci celestini di nome Giovanni: l’uno nel 1269 “Superiore Mitrato” e l’altro Superiore Generale nel 1299: secondo me, e secondo cronisti e studiosi autorevoli i due Giovanni potrebbero essere la stessa persona (Febonio, De Mattheis, Marini, Telera); ma quel che voglio far notare è che il secondo emanò una Regola nel 1298 (San Celestino era morto da due anni e Giovanni era Superiore Generale della Congregazione dei Fratelli dello Spirito Santo-Badia) la quale Regola non fu approvata molto probabilmente perché essa era improntata al radicalismo spirituale, per cui, in prosieguo di tempo, Giovanni fu scomunicato ed ora il suo nome non appare nelle fonti ufficiali o vi appare velatamente.
2- San Celestino esaltò l’eremo e, quando entrò nella grotta dell’eremo, un serpe docilmente gli lasciò il posto (anche mentre tornava da Lione fu aggredito dai banditi e difeso da tre serpi); la statua di San Domenico, nella processione di maggio, porta serpi vive addosso (simbolo dell’eremita, ripeto, come la palma è simbolo del martire); e duecento anni prima di Celestino pure il nostro Patrono era stato eremita. Monsignor Antinori, già metropolita pure della nostra Diocesi, scrisse che nel 1392 i monaci di Montecassino spostarono nella chiesa cocullese di Sant’Amico dalla grangia casalana le reliquie di San Domenico, e allora l’abate di quell’Abbazia era un Minorita (Fra’ De Tartaris O.F.M., inviatovi dal Papa Olivetano nel quadro della riforma monastica) e quindi spiritualmente un compromesso fra San Francesco e gli Spirituali.
Pietro fondò ai piedi della vicina Maiella la Casa madre della sua Congregazione, e, abbracciando la Regola Benedettina di cui la sua “frateria” poi fu un ramo, insegnò ai suoi frati a lavorare anche per il sostentamento dei poveri: incrementò l’agricoltura e l’arte della lana estendendo la sua influenza nei paesi vicini, ove già aveva fatto molti proseliti che poi lo aiuteranno a costruire la Basilica aquilana di Collemaggio insieme con i Templari [2].
3- Mi si permetta di rilevare, per inciso, che l’arrivo della reliquia di San Domenico e la costruzione della chiesa della Madonna delle Grazie furono quasi contemporanei. In tale chiesa, eretta su una chiesetta preesistente, è affrescato un trittico cinquecentesco riproducente i ritratti di Sant’Antonio Abate con ai piedi il “porcellino sacro” cancellato forse nel ‘600, ma l’abrasione (che contrasta con la buona conservazione del dipinto) nella parte bassa dell’immagine del Santo denuncia l’intervento di qualche profano, se non …dell’arciprete (Delibera del giugno 1668). Gli altri due personaggi raffigurati sono Sant’Amico e Maria Maddalena.
La raffigurazione della Maddalena ci può ricondurre ad una possibile ristrutturazione voluta dal celestino D. Giovanni o dagli ambienti a lui vicini. Mi spiego. E’ a tutti noto il fatto per cui Carlo II d’Angiò nel 1294 salì sul Morrone per prelevare il Santo Eremita onde farlo elevare al Trono di Pietro; non so se è altrettanto nota la particolare devozione che l’Angioino aveva per la Maddalena, la quale lo avrebbe guidato, in una apparizione, sulla via della salvezza (quando il re era stato preso prigioniero) e in onore della Soccorritrice egli costruì diverse chiese, una delle quali, più maestosa – è bene ricordarlo per cercare di scorgere un tenue legame fra le due ultime immagini del trittico –, fu quella sulmonese che poi venne intitolata a San Francesco (struttura voluta dai Minoriti Francescani?) ed in cui era custodita una reliquia di Sant’Amico (già titolare della parrocchiale cocullese ora Madonna delle Grazie).
4- San Celestino morì nel 1296 e fu sepolto nella chiesa ferentinate di Sant’Antonio, annessa ad un monastero celestino; anche la chiesa cocullese di San Domenico è vicinissima ai ruderi di quella di Sant’Antonio, probabilmente tenuta dai Celestini seguaci di Giovanni.
5- La pergamena ingiallita dell’Archivio riproducente i confini territoriali del Comune. Veramente ritengo che quell’antico e rozzo schizzo rappresenti la sfera d’influenza che ebbe, in passato, Giovanni di Cocullo sulla Casa Madre dei Fratelli dello Spirito Santo. Infatti Strabone definisce questo paese “pòlis”, ma non nel significato di “città”, credo, sibbene in quello di “centro fortificato fornito di pago”.
Postille - La reprimenda
Que farai, Pier del Morrone?/ Sei venuto al paragone… (cioè: che farai adesso che potrai paragonare la solitudine ed il dialogo con Dio in confronto al rumore, al fasto e alla mondanità della Curia?)= Jacopone da Todi, l’autore, era un Francescano dissidente, ex notaio e poeta, così stigmatizzo Pietro del Morrone quando questi accettò il Pontificato. Allorché Bonifacio VIII abrogò la disposizione celestiniana che aveva approvato le congregazioni degli Spirituali si schierò con i cardinali Colonna, nemici del nuovo papa, e fu tra i firmatari del famoso manifesto di Lunghezza con cui si chiedeva la deposizione di Bonifacio VIII.
L’umiltà
Fratelli miei, voi mi avete eletto papa, e so di avere fatto molte cose, alcune bene, e altre meno bene, che voglio revocate, perché non so distinguere quello che è stato fatto bene da ciò che non lo è stato. Ma io lascio la scelta al mio successore, affinché su questo possa decidere secondo la sua volontà.
Così disse San Celestino ai cardinali del Concistoro di Napoli quando rinunciò al Pontificato.
San Francesco fu molto vicino agli Spirituali, solo che questi ultimi respinsero sempre la Chiesa ufficiale, mentre il primo la accettò come entità fondata da Dio.
San Francesco e San Celestino - Angelo da Clareno - “Le tribolazioni”
Alcuni Francescani, tornati dalla Siria, chiesero al vicario del ministro delle Marche Monaldo di voler … qui ab illa regulae fideli et pura observatione, quam Sanctus Franciscus in suo testamento et in aliis suis scriptis mandaverat, spontanee declinabant.
Ipse enim dominus Caelestinus multorum sanctorum et antiquorum fratrum notitiam habuerat et omnis paupertatis, humilitatis et perfectionis angelicae erat sincerus et ferventissimus amator et observator, et omne verum Christi servum et perfectionis amatorem sincero diligebat et venerabatur affectu … (da Bartolomei, op.cit.): con pura e fedele osservanza quella regola che San Francesco aveva prescritto nel testamento e in altri scritti e che essi avevano accettato spontaneamente.
Lo stesso Padre Celestino aveva avuto notizia di molti e antichi santi frati e di ogni povertà, umiltà e perfezione angelica era sincero e ferventissimo ammiratore [lett.: amatore] e osservante e apprezzava ogni vero servo di Cristo e amatore della pefezione [e perciò] era venerato con sincero affetto.
San Francesco era vicino agli Spirituali, ancora più vicino fu San Celestino; ma neanche quest’ultimo ripudiò l’istituto di Cristo, la Chiesa, tant’è vero che rinunciò al Papato per tornare all’eremo ed anche quando ne fu impedito dormì ai piedi dell’altarino che si era fatto adattare nella cella.
Angelo da Clareno, capo dei Fraticelli, come San Francesco e San Celestino, auspicava l’avvento di una Chiesa rinnovata e spirituale. Prima fu protetto dal card. Jacopo Colonna, poi fuggì a Subiaco e, allorché fu eletto papa Celestino V, si recò da lui e dall’incontro nacque la Congregazione dei “Pauperes heremite domini Caelestini”.
Note
[1] L’Autrice esplicita in modo elegante quello che avevano scritto Tommaso da Celano o Giovanni di Cocullo o qualche monaco vicino a Pietro (“de Vita sua”).
[2] L’ipotesi di un collegamento celestiniano fra le chiese di Collemaggio in L’Aquila e quella della Madonna delle Grazie in Cocullo la suggerisce anche il motivo della Madonna con il Bambino ricorrente nella lunetta della porta santa della Basilica aquilana - dipinto la cui esecuzione di Antonio d’Atri nel 1300(?) fu finanziata da un Simone di Cocullo, - e nella lunetta (una “Annunciazione”?) affiorante dal cemento di un restauro semiabraso, eseguito rozzamente, sul portale principale della chiesa cocullese della Madonna. Dopo vari passaggi, la Congregazione dei Celestini era stata assorbita dall’Ordine Benedettino e successivamente Bonifacio VIII sottomise gli Antoniani alla regola agostiniana.