Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#92 - 14/06/2022

Chiesa di Sant'Antonio

Scrivevo che nella parte bassa (solo oggi bassa, ma allora ai margini del centro di Cocullo, e sul letto di un torrente ormai quasi del tutto secco), presso l’odierna Rua Sant’Antonio dove si trovano i resti della chiesa omonima, sulla “Pélélla” (altro toponimo che evoca il ricordo di una lastra concava al centro e allisciata dall’azione dell’acqua allora abbondante nel suo volume più che sufficiente a spingere la mola del mulino della “Refota” posto a valle), dove le donne – forse prima anche i frati – andavano a sciacquare i panni, si possono ancora vedere, fra gli sterpi, i ruderi di un complesso che aveva i requisiti dello “spitale”, cioè di uno degli agglomerati adibiti all’assistenza ai viandanti, ai pellegrini, ai poveri e agli infermi (pestilenze e carestie, particolarmente nel ‘300 si accanirono anche sulla nostra comunità) anche perché esso sorgeva in un punto strategico qual era il traghetto fra le rive e proprio vicino alla chiesa comparrocchiale di Sant’Egidio e ai margini del tumultuoso corso d’acqua. Accanto allo spitale di Sant’Antonio Abate [Vedi nota 1, in fondo al testo] sorgeva la cappella, successivamente chiesa, già grangia della Rettoria Generale di Napoli. Il 17 gennaio di ogni anno vi si celebrava e poi si festeggiava in paese la ricorrenza del Santo con il concorso di pellegrini, anche se, come leggiamo dalla delibera del 23 febbraio 1597, quell’anno … ciera poca gente alla festa. Naturalmente il freddo non favoriva l’afflusso dei pellegrini. S’incominciava a pensare di spostare la “festa” nella ricorrenza dell’altro Sant’Antonio? Da quanto risulta è facile arguire che la solennità era nota anche fuori del paese. Quale poteva essere il richiamo per i forestieri che certamente non erano mossi tutti dalla devozione lo leggiamo nella deliberazione del 10 gennaio 1644: … come è solito di fare la festa di santo Antonio cioè di dare il pane, et carne conforme per il passato…: quella carne era fatta con il sacrificio del porco sacro; non ci lasciavano, alla riffa, neanche le interiora (“introssichi”, dal greco “entericon”= cosa che riguarda gli intestini): … a chi volesse comprare l’introsici delli porci fatti per la solita festa di Santo Antonio nella publica piazza si, e accesa la candela alla presenza di marino di Risio Camorlenco in nome della Corte rimasto à cavalli Venti per decina alli sotti scritti… (Obbligazione del 16 gennaio 1717). Scrive il medico-folclorista abruzzese G. Finamore: In molti comuni usano comprare un porcello, a cui appendono un campanellino. La bestiola vaga liberamente nel paese; … e tutti di buon grado danno da mangiare al porco di Sant’Antonio. Fatto grande il quadrupede è …riffato, e il prodotto della riffa si spende per solennizzare la festa del santo… Altri scrivono che il maialetto veniva comprato nel giorno di Sant’Antonio, veniva ingrassato con le spese di tutti e poi ucciso dopo un anno esatto per essere venduto in un’asta pubblica, la cui base forse veniva gonfiata perché si era diffusa la credenza che l’assegnatario sarebbe stato accompagnato dalla fortuna per dodici mesi. Altrove ho scritto, e qui voglio sottolinearlo, che quella di Sant’Antonio forse è da considerare una delle principali feste del passato religioso cocullese dopo quella di Sant’Amico. Oggi (nella chiesa della Madonna delle Grazie dal terremoto del 2009) vediamo la statua del Santo con ai piedi il porcellino che reclama il suo protagonismo folclorico, a cui si sovrappone la componente religiosa: la virtù soprannaturale deriva all’animale dall’aureola del Santo che svetta attorno alla testa di lui. L’usanza di tollerare le scorribande dei suini nei centri abitati è molto antica; e le bestie, equipaggiate con campanelli o meno, facevano danni. All’inizio del Medioevo una di queste bestiole aveva causato la morte del delfino di Francia, disarcionato da un porcellino vagante fra le zampe del di lui cavallo. Più tardi molti statuti limitarono la circolazione a pochi esemplari di porcellini benedetti; per esempio lo statuto di Orvieto recitava Che nessun porco e nessuna scrofa vada per la città… salvo che due porci di Sant’Antonio. Il cerimoniale folklorico del Santo, ora, a Cocullo è solo un ricordo appannato; resiste ancora in area regionale e, appunto, affonda le radici nel risorgimento medioevale. I monaci di Sant’Antonio dei Viennesi avevano servito nell’ospedale ove accogliere gli infermi, ma presto avvertirono il bisogno di procurarsi del denaro pure per i tempi futuri, al fine di mantenere funzionante la struttura benefica. La rendita l’assicurarono dei maialini ch’essi avevano comprato lattanti e che venivano sguinzagliati nei centri abitati perché fossero ingrassati dall’obolo dei devoti e dai rifiuti degli abitanti. Il piedistallo dell’espediente su cui si sarebbe sviluppato un fortunato fenomeno di folclore sarebbe derivato da un accorgimento squisitamente economico escogitato dai monaci di Sant’Antonio a Vienne. E questa considerazione ce ne suggerisce l’origine ad una data vicina al 1311 (Concilio di Vienne), quando Clemente V, minacciato da Filippo il Bello, fece sciogliere l’Ordine dei Templari, e solo una parte residua, per sfuggire alla morte, si camuffò negli Antoniani (ma soltanto in Francia, poiché in Europa furono processati).

Nella seconda metà del ‘600 Cocullo fu turbato da un’ondata di peste e di freddo echeggiata nell’eco della ripetuta frase ciera poca gente di settant’anni prima. Allora si pensò di celebrare la solennità di Sant’Antonio Abate il 13 giugno, ma …come li giorni passati fu eletto per procuratore di santo Antonio il quale li arciprete non li have voluto publicare nella chiesa quale siame ricorsi da Monsignore et il vicario più presto e dalla sua con dire che non havemo attione di fare li procuratore di Santo Antonio de padua si beno per quello di vienna… (delibera del 18 giugno 1668). Insomma ci avevano provato, ma le autorità religiose si erano opposte. Ora, considerato che non so quando fu acquistata la statua di “Santo Antonio del giglio”, ora collocata come l’altra nell’unica chiesa attualmente funzionante, non mi resta che avanzare un’ipotesi basata su una realtà: nella stessa chiesa esiste un affresco consistente in un trittico restaurato nel 1560 che raffigura la Maddalena, Sant’Amico e Sant’Antonio la cui figura, alla base, dove dovrebbe stare il porcellino, presenta una vistosa abrasione; quando e chi ne fu l’autore? E perché? Credo che si trattò di un rozzo tentativo di cancellare la bestiola; e poi fa pensare il colore bianco del saio (che però Sant’Antonio da Padova indossò per poco tempo e agli inizi, quando fu Agostiniano e quindi dapprima era appartenuto all’Ordine che più tardi avrebbe inquadrato gli Antoniani) e qualcuno avrebbe provveduto, suggerendo poi di far comprare una statua di Sant’Antonio da Padova, e apportando le seguenti modifiche: il giglio stretto al petto con una mano aperta (che però sembra appiccicato) e l’assenza della fiamma (simbolo del “fuoco di Sant’Antonio”), abbastanza comune nell’iconografia dell’Abate. I dubbi restano, ma il brano della delibera comunale poc’anzi riportato è chiaro. Ho formulato un’ipotesi che potrebbe far ridere; ma l’ho scritta, ridendo io stesso, per l’abrasione!

Ancora, fra le pergamene, di cui si è fatto cenno, reperite nell’Archivio comunale, leggiamo il manoscritto del 13 marzo 1596 (il più eloquente in proposito, anche se si riferisce alla cappella della chiesa di San Nicola) con cui Fra’ Paolo Isareio, professore di sacra teologia, procuratore e vicario generale dell’Ordine dei Predicatori Domenicani, ricordava ai fedeli cocullesi che avevano creato la Confraternita del SS.mo Nome di Dio nella chiesa di San Nicola [2] in virtù della predicazione del Rev. P. Fr.Sisto da Colle Corvino [3] dell’Ordine dei Predicatori ed avete fondato ed eretto un altare e una Cappella, desiderando [voi] che questa istituzione, ordinazione e fondazione siano da Noi accettate, approvate, e avete chiesto molto vivamente [quanto sopra], per mezzo della mediazione di Matteo Ruggeri di detto paese, di confermare con nostri scritti espliciti. Accettando di degnarci di ammettere, approvare e confermare con grazie e favori particolari detta vostra Confraternita, Noi, convinti dalle vostre sollecitudini e dalle pie istanze, accettiamo, approviamo e confermiamo, con l’autorità apostolica che ci è concessa, detta Confraternita istituita come detto, e aggiungiamo vigore di perpetua stabilità e [la] erigiamo, poiché è necessario, come la presente Bolla. Omissis. Ammonendo che nel santo giorno della Circoncisione del Signore si debba celebrare nella stessa Cappella, ogni anno, la festività del Santissimo Nome di Dio conformemente alla decisione e al precetto della santa ed eterna memoria di Pio IV (il manoscritto fu confermato da un altro di un collega in data 14 luglio 1616). Nel 1607 a questa Confraternita ne fu associata un’altra con decreto provocato dalla supplica di Taddeo Tirabassi (per intercessione di Matteo Ruggiero, un discendente dei conti Ruggeri?). Secoli addietro era sorto lo “spitale” cocullese forse ad opera di Don Giovanni magari influenzato da qualche Templare che accompagnava Carlo II d’Angiò quando costui andò a prelevare Pietro del Morrone alla Badia e nacque una frateria che confluirà nell’ “Ordine Ospedaliero dei canonici regolari di Sant’Agostino di Sant’Antonio Abate”. Dieci anni dopo l’Ordine sarà approvato dal Papa e confermato un secolo più tardi con una bolla di Onorio III (l’assistenza era un precetto da osservare: in questa si riflette l’immagine di Cristo). A Cocullo, ripeto, come affermò in un documento datato 14 luglio 1616, il prelato degli Agostiniani e Generale dell’Ospedale di Sant’Antonio Viennese [4] confermò che la cappella cocullese di Sant’Antonio di Vienne – “che non è dotata della cura delle anime” – era una grangia della Rettoria Generale dell’Ospedale “siti e posti vicino e fuori le mura della Porta Capuana di Napoli”.
Nel 1865 ancora funzionava la chiesa di Sant’Antonio Abate, “impecettata” in conseguenza del terribile terremoto dei primi del ‘700.

Ora torno alle origini del complesso edilizio antoniano e della evoluzione di quello. Premesso che i terremoti, le pestilenze e il trascorrere dei secoli non permettono di risalire ad epoche antecedenti al XV secolo, notizia certa dell’esistenza di una struttura caritativa adiacente alla cappella di Sant’Antonio Abate ci porta quindi al manoscritto del 16 maggio 1537 [5], con cui si avvertivano i Cocullesi che l’anno prima “la Sede Apostolica aveva concesso benefici a diverse istituzioni religiose degli Agostiniani [6] di Sant’Antonio Viennese”: comunicò che anche l’ “hospitale” cocullese di Sant’Antonio da Padova, da poco ricostruito ex novo vicino alle mura del paese, deve essere soggetto alla stessa disciplina. Intanto, “affinché non venga meno il rispetto della detta università e degli uomini verso il procuratore del beato Antonio Viennese ma viepiù si vivifichi, è necessario che si osservi l’ospitalità in ogni forma e modo migliore, ed assegniamo [7] in amministrazione perpetua ai saggi uomini Marino Risio, camerlengo, e Antonio Lisciotti e Giovani de Milana, massari, detto hospitale con tutti i suoi frutti e proventi, assoggettandolo alle seguenti regole”. Segue l’enunciazione delle stesse: 1- che l’ospizio sia mantenuto sempre in buono stato e sempre provvisto e ben attrezzato per dare ricovero ai poveri; 2- che ogni anno sia nominato un procuratore dall’univeristà e che gli renda conto della sua amministrazione in un registro di bilancio; 3- che detto ospizio possa contare su un responsabile il quale non accetti ricompense; 4- che con cadenza annuale l’università paghi una retta per le entrate e per le elemosine all’amministratore generale di Napoli. Ricordo la frase del prelato Giovanni Velasco, Commissario generale e procuratore di Sant’Antonio Viennese, con cui aveva specificato che accanto all’ “hospitale” sorgeva una cappella: …Per cui venendo io, Giovanni predetto, venuto a sapere di un ospedale sotto la denominazione dello stesso Sant’Antonio, sito e posto fuori e vicino le mura del castello di Cocullo, nella via e presso i muri e la cappella di Sant’Antonio da Padova…

Oggi della chiesetta del Santo Abate (fu definito “glorioso” in varie delibere del Consiglio comunale), chiesa eretta su un sito sicuramente localizzato anche per il ritrovamento di qualche raro reperto che fa pensare al tardo stile romanico abruzzese, resta qualche muro smozzicato che emerge fra un ammasso di macerie e di rovi. Lì vicino sorgono alcune stalle malandate e abbandonate che indubbiamente erano state ricavate dai vani dell’ospizio. Poco oltre rovine, soltanto rovine: potevano essere i resti delle strutture originarie. Già nella mia fanciullezza lì c’erano solo distruzione e abbandono. Restava soltanto (più che in varie parti dell’Italia centrale, particolarmente in molti paesi dell’Abruzzo marsicano e marrucino) un vago ricordo nelle manifestazioni profane caratterizzanti la cornice della ricorrenza della festività e dell’offerta caritativa: a Cocullo i ragazzi più grandi di me (qualche volta mi aggregai a loro) giravano – con cesti e con qualche strumento musicale vero o di fortuna, come barattoli di latta – per le vie del paese a cercare cacio, frutta e caramelle. Purtroppo le usanze sono cambiate; si preferisce Alluin, ignorando che l’Abruzzo è ricco di tradizioni radicate in abitudini antiche e suggestive che gli scimmiottamenti possono (ed hanno potuto) alterare. Che triste destino è toccato alla “gloria” del Santo! Recita la deliberazione comunale del 7 ottobre 1652: …come li procuratori del glorioso Santo Antonio anno fatto venire li pittore per fare alcuni miracoli della vita de detto Santo pero cisone alcune salme di Grano, et dicono volerle spendere per detta pittura. Da tutti estato ordinato et risolutoche li Procuratori de detto Santo facciano fare detti miracoli et quello Che sarranno piu necissario pero li Massari et detti Procoratori facciano li patto col detto pittore… (LC). Dal che si evince che la piccola struttura poteva contenere un altro scrigno d’arte dopo che le pareti della chiesetta erano state affrescate alla metà del ‘600 con i miracoli operati da Sant’Antonio, il quale, pure, fu uno dei santi più importanti del pantheon cristiano di Cocullo, mentre ora non ha neanche una dimora, quando invece in passato ebbe anche il sagrista-custode che, oltre a servire nelle funzioni religiose dovette assolvere i compiti dello “hospitaliero”. Chissà, se rinascesse Cesare Marchione, come si orienterebbe in quella desolazione: …Come noi ne ritrovame, senza hospitaliero, et siamo obligati a tenerce uno la detta Università pero cie Cesaro di Donato marchione quale vorria servire al detto Santo et servire anco per balio e fare tutto quello che puote pero vorriaessere franco de Collette, et vole uno pare de scarpe lanno. Da tutti… che al detti Cesare selli dia il possesso di spitaliero e selli faccia lonventario di tutto quelle che si trova a santo antonio… (delibera comunale del 12 novembre 1655)

Questo inedito lo stesi prima che la gentile professoressa Valeri mi facesse omaggio del libro da lei scritto su “Il complesso monumentale di sant’Antonio a Ferentino”, Editrice Casamari; mi riprometto di aggiornarlo (non so se e quando) alla luce delle preziose e dettagliate informazioni delle quali non ero a conoscenza.

Note
[1] Un bassorilievo lo ritrae vecchio e con la barba fluente come lo vuole l’iconografia.
[2] Già cappella.
[3] Se questo predicatore fu colui che poi sarebbe diventato Papa Sisto V Peretti (come, io penso, denuncerebbe l’arma scolpita sull’architrave del portale), la predicazione non poteva risalire a prima degli anni ’40 del Cinquecento, essendo il futuro pontefice nato nel 1520. In proposito si può rilevare, per inciso, l’eventuale collegamento di questo episodio con le successive vicende legate alla signoria cocullese dei Peretti, a cui il Piccolomini avrebbero venduto la contea nel 1591.
[4] Già tre secoli prima, a Montecassino, i Benedettini (nell’Ordine confluirà la corrente degli Antoniani) possedevano la “casa degli infermi”.
[5] Ma il manoscritto del 10 maggio 1536 parla anche di “spitale di Sant’Antonio”.
[6] Ricordate il colore del saio nel trittico all’interno della chiesa della Madonna delle Grazie? Dalla lettura della pergamena sembrerebbe che a creare la confusione fra i due Sant’Antonio siano stati coloro che hanno riferito agli Agostiniani…
[7] Leggi “io” (si tratta di un plurale maiestatis).

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