Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#65 - 09/11/2021

Addio monti

Provo tanta nostalgia per il paesaggio del paese natio così come lo vidi quando ero piccolo. E non credo ch’io sia o sia stato il solo.
Allora, quando partì Domenico perché chiamato alle armi (Prima Guerra Mondiale) doveva essere ancora più bello: il rio Pezzana aveva più le dimensioni e il volume di un piccolo fiume sebbene, specialmente a monte, avesse più il carattere di un grosso torrente per i dislivelli e le tortuosità. Nell’accogliente fiumiciattolo si specchiava la selva. Il giovane aveva fretta e, correndo, la mirava. E mirava e correva: di buon’ora era uscito di casa in divisa per rispettare l’appuntamento con la tradotta; durante il viaggio così la rivide conservandone il nostalgico ricordo fino alla trincea; proprio come Lucia, trecento anni prima, aveva visto il suo lago proiettato nel cielo (Vedi nota 1, in fondo al testo). Non intendo paragonare la poesia di Domenico a quella di un Autore che ha affidato ad una sola opera la sua fama, non solo come poeta, ma come uno dei più importanti, se non il più importante, scrittore del romanzo storico moderno; però per rilevare che la commossa memoria delle persone sensibili costrette ad allontanarsi dalla culla della fanciullezza è la stessa:
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra:… Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata… Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere (2). Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi. [...] …… al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolofisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. – Signor curato, – disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia. – Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo. – Lei ha intenzione, – proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! – Cioè – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune. – Or bene, – gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai. – Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me, vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... – Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende - Ma. lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli... - Ma, – interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o... – e qui una buona bestemmia.– o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... – un'altra bestemmia. – Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: – se mi sapessero suggerire… – Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo. – Il mio rispetto… – Si spieghi megli o! - Disposto... disposto sempre all'ubbidienza. - E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio! – Benissimo, e buona notte, messere, – disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. – Signori – cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.


I “bravi” (3) si chiamavano “Nibbio” e “Griso”. Don Rodrigo, il padrone, aveva provato in vari modi ad ostacolare il matrimonio per insidiare Lucia, creatura dalle lunghe trecce nere, timorata e timida, ma adesso…con quei due c’era poco da scherzare: i promessi sposi interpellarono il buon fra’ Cristoforo, del vicino convento di Pescarenico, (un santo religioso, il contrario di Don Abbondio che cercò di imbrogliare Renzo con il suo “latinorum” come i bravi avevano terrorizzato lui), il quale li tranquillizzò e suggerì loro di allontanarsi dal prepotente signore di Lecco, deciso a tutto.
Renzo seguì malvolentieri il consiglio del buon frate e cominciò a covare un odio profondo per il castellano. La giovane, docile e sensibile, dal lago mirava il paesaggio che le era familiare, con i suoi monti che si allontanavano, con il suo villaggio che diventava sempre più piccolo: cadde nella prostrazione dell’esiliato che teme di non vedere più il panorama a lei caro: si commosse alpensiero che i suoi cari erano impastati con quei monti; al ricordo di quei fiumi che scivolavano come le parole dei parenti; ricordò pure la casa dello sposo e quando vi entrò vergognosa per la prima volta e che forse era l’ultima. Poi rifletté che, non avendo perso Renzo, la Divina Provvidenza le avrebbe potuto preparare un futuro migliore:
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari (4); torrenti, de’ quali distingue lo scroscio,come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìocome branchi di pecore pascenti (5); addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case (6), le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.

Il romanzo non si svolge solamente con la descrizione ironica di personaggi pavidi come Don Abbondio o con imbroglioni come Azzeccagarbugli, ma anche con la presentazione di persone di bassa condizione sociale accanto a classi diverse a quelle contrapposte: il tutto alternato a scene commoventi (come la morte di Cecilia o di fra’ Cristoforo, come la redenzione di Renzo davanti al moribondo don Rodrigo o il coraggio e la fede con cui fra’ Cristoforo affronta il potente Innominato a paragone con la pavidità dell’altro religioso, il parroco, ecc.) che fanno del capolavoro un’opera di alta poesia in prosa.

Note
(1) Similitudine: figura retorica.
(2) Manzoni scrisse che quel parroco “non era nato con un cuor di leone.” E poi: "Un vaso di terra cotta in mezzo a tanti vasi in ferro".
(3) I “bravi” erano mercenari prepotenti e cafoni a servizio dei signorotti.
(4) Litote: figura retorica (si fa un’affermazione e se ne nega il contrario).
(5) L’allitterazione è una figura retorica: ripetizione di parole che iniziano con le stesse lettere.
(6) Fig. retorica: anafora, cioè ripetizione di una parola per collegare due frasi: es. si fossi foco arderei lo monno, si fossi vento lo tempesterei…

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