Chichibio e Don Giocondo
La dimensione cocullese odierna si è totalmente capovolta rispetto al mondo di Corrado e di Chichibio. Il lettore avrà già capito che non tornerò a descrivere l’ambiente e l’atmosfera di “quel” tempo, considerato che don Giocondo e don Gastone sono vissuti appena quattro generazioni addietro. In precedenza avevo solo accennato alla vivacità degli abitanti a proposito delle comari alla finestra, ma ora mi soffermo sull’arguzia fine dei suoi abitanti. Intanto ripassiamoci una novella del Boccaccio. Nel periodo della peste nera (metà 1300) tre uomini e sette donne si rifugiarono nelle ville delle colline di Fiesole e passarono il tempo raccontandosi novelle di carattere spesso umoristico e altrettanto spesso con riferimenti all'erotismo. “Chichibio e la gru” è il titolo di una di queste cento novelle. Corrado era un nobile fiorentino che in una battuta di caccia aveva preso una bella gru. La fece cucinare a Chichibio, il suo cuoco migliore perché avrebbe avuto delle visite; quando Brunetta, di cui il cuoco era follemente innamorato, la vide cotta lo persuase, ricattandolo per la fame (alle epidemie si accompagna la carestia), a dargliene una coscia se ne voleva vedere una sua. A cena il padrone si accorse che mancava un bel pezzo di carne: chiese il perché a Chichibio e questi rispose che quegli uccelli hanno una zampa sola. Al che Corrado, incredulo, lo invitò a seguirlo nel giorno seguente alla ricerca di anatre. Fattosi giorno si avviarono verso il fiume e scorsero alcune gru addormentate ritte su una zampa: il signore le spaventò e quelle volarono via mentre tiravano fuori l’altro arto. Allorché il gentiluomo fece notare all’altro quel che avevano visto, Chichibio, impaurito, replicò timidamente che se il padrone avesse disturbato allo stesso modo pure quella cucinata, forse questa avrebbe cacciato la zampa. Il padrone, allora, non poté trattenere una fragorosa risata e la cosa finì lì.
Press’a poco la stessa cosa successe a Cocullo ottant’anni fa. In paese ancora vivevano signori spiritosi ed anche per questo degni di appartenere ad una classe sociale medio-alta, ma non come oggi: passata la fame, son tutti “signori-sfigati”; però, senza i villici, Chichibio non mi avrebbe dato lo spunto; infatti la novella del cuoco riporta all’orizzonte due strati sociali molto diversi: quello di Don Gastone e Don Giocondo (il fatto è vero, ma i nomi sono fittizi) contrapposto a quello di Venanzio, quello dei signori a quello dei contadini. Il ceto dei signori è caratterizzato dalla cortesia e dall’educazione nonché dall’arguzia, l’altro da una miscela di acutezza mentale, rozzezza e analfabetismo, insomma da “scarpe grosse e cervello fino”. Come accadde a Cocullo alcuni decenni fa. Un giorno Venanzio bussò alla porta della casa di don Gastone: aveva con sé un pollo e si presentarono tutti e due (pollo e Venanzio) al padrone: alla donna di servizio fu consegnato il volatile, mentre ai gentili complimenti e apprezzamenti dell’ospite fu risposto con la richiesta di un parere. Avutolo, Venanzio si congedò mentre don Gastone rispondeva al saluto così: “Caro Venanzio, tu vali un bijoux”. Il destinatario non conosceva il significato della parola, non sapeva che era un vezzo, anzi pensò che fosse un soprannome: uscì non proprio di buonumore per l’accoglienza ricevuta e corse a don Giocondo chiedendogli che significasse “biggiù”. Rispose il gentiluomo burlone dopo aver saputo chi aveva pronunciato quella parola: “Ma non può essere che ti abbia rivolto questa parolaccia inqualificabile! E’ un’offesa grave!”. Il povero Venanzio tornò da don Gastone e bruscamente chiese la restituzione del gallo, che una donna si accingeva a spennare: lo riebbe cortesemente dallo stesso anfitrione e se ne tornò a casa gongolante e soddisfatto per il parere avuto e con il pollastro, lieto di aver salvato la vita a quest’ultimo. I due cugini, don Giocondo e don Gastone, uscendo dalla chiesa dopo aver assistito alla messa domenicale, si narrarono l’accaduto e risero come Corrado. Qualche giorno dopo Venanzio si vantò con un conoscente raccontandogli l’episodio e, come avviene spessissimo nei paesetti, quello lo riferì a don Gastone, il quale commentò, con un sorriso amaro: “Non lo ha fatto a me!”.
Intanto Venanzio pascolava le pecore provando sollievo nel respirare l’aria pura, quasi lo stesso sollievo che aveva provato Chichibio alla risata del padrone.