Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#28 - 23/02/2021
Se fossi un emigrato ai primi del '900...<br>
(tragedia greca - epilogo)

Se fossi un emigrato ai primi del '900...
(tragedia greca - epilogo)

La fantasia ti fa volare.
Quando certi signori imposero in Italia la supremazia dell’industria sull’agricoltura e delle autostrade sulle normali statali condannando così all’asfissia i piccoli centri di montagna e i rustici a vivere di aria pura, io decisi di andare a cercar fortuna altrove. Lasciai le pecore e il campicello imbarcandomi all’idroscalo dell’Aralizza. L’idrovolante sorvolò il Pezzana e le case abbarbicate sul colle, prese quota e planò su un laghetto dell’Ontario. Andai a piedi, con la valigia di cartone pressato sulle spalle, ad un aeroporto speciale degli Stati Uniti. Di qui un aeromobile (anch’esso speciale) mi portò sulle Montagne Rocciose e proprio qui la fortuna mi baciò in fronte. Mi stabilii in una valletta vicina, ricca di alberi e di sorgenti di liquore. Mi accinsi al lavoro; dalla valigia estrassi l’ascia e tagliai degli alberi per costruirmi una casetta decorosa. Malgrado nevicasse, sudai e con il fazzoletto mi asciugai la fronte, ma inavvertitamente un lembo della pezza si posò sul tronco. Me ne accorsi quando mi macchiai le dita con un colore sospetto mentre ripiegavo il fazzoletto: lo fiutai, quel colore, e non mi sembrò maleodorante. Allora leccai le dita per sondarne il sapore: la scaglia si componeva di cioccolata dura fondente (alta percentuale di cacao)! Rifinii la casetta e per giorni mi sfamai leccando su quel tronco. Non basta. Era sufficiente leccare una scaglia cioccolatosa, fornita di batteria ricaricabile, per esaudire un desiderio. Me ne accorsi quando, mentre mordevo un tronco per la fame, ricordai le ricotte del mio paese sognando colazioni a base di cioccolata spessa e fondente. Mi alzai per svegliare un piede addormentato e vidi sul tavolo cinque ricotte, un barattolo di nutella e dieci cioccolatoni a quattro piani: mi sfamai e la riacquistata energia le volle tutte, per cui la accontentai volentieri… Alla fine, con il passar del tempo, allorché cominciai ad avvertire il dolorino provocato alla lingua dalle scagliette mi stufai della cioccolata e di quel liquore; la ghiottoneria m’inculcò il ricordo nostalgico di “quella” torta: la vidi girandomi. Svettava maestosa con i suoi quattro piani al centro della tavola imbandita ed andai a cercarne un’altra. Allora sentii un leggero brusio: pensai che fosse il brontolio della bufera lontana e invece era il tronco che mormorava: “Vuoi vedere che questo fesso esprime un desiderio alla volta?!”. Stavo leccando il vassoio che aveva avuto la fortuna di ospitare il dolce; saltai dalla sedia di scatto e mi spostai immediatamente onde ripetere l’operazione tipo piallatura. Per prima cosa chiesi una mogliettina “così” che mi aiutasse e sostituisse il tronco con le scaglie; poi, riflettendo sul fatto che questa mi avrebbe potuto dare dei figli, chiesi una casa più grande e, se possibile, il denaro necessario per arredarla e mantenere il nido agiatamente. Sulle “Colline Nere” non esistevano burocrazia, né banche, né tasse, né fisco, né controlli, né ostetriche per quando mia moglie ne avesse avuto bisogno. Uscii speranzoso con l’inseparabile ascia sulla spalla, e …meraviglia! Davanti mi si pararono gli occhi languidi e ombrati da ciglia nere di una sioux: dal viso aperto s’irradiava il sorriso della giovane bella e procace. Nel palmo della mano sinistra aveva un mazzo di chiavi e con la destra mi fece cenno di seguirla verso un meraviglioso villino a tre piani che non avevo mai visto quando ero uscito a disboscare. “Eccomi”, disse con voce sommessa mentre entravamo, “ora dimentica il tronco”. Ci avviammo verso uno stanzone con l’alcova: dalla cortina pendeva un velo di raso che scendeva fino alla sponda del letto. Solo quando ci alzammo ebbi modo di ammirare il ricco ed essenziale arredamento. Uscì dalla stanza prima di me onde preparare le colazioni. Aveva sostituito il tronco benedetto a tutti gli effetti, la bella sioux, la quale poi mi diede tre figli come i piani del villino. Non esistevano scuole ed i miei figli cominciarono a lavorare e presto la mia impresa ebbe cinque dipendenti: io, mia moglie e i tre figli, i quali però – sapendo tutto la madre la quale aveva frequentato l’università – impararono presto senza programmi, senza banchi con le rotelle, senza maschere asfissianti e senza ministri della pubblica distruzione. Insomma, grazie al tronco, ora ero ricco e felice come quando, bambino, portavo un piccolo idrovolante al rivo. Certo, ne avevo ben donde per essere felice; fino a quando, però, ricordai con nostalgia il paese natio: mi recai al tronco della prima abitazione ed espressi il desiderio di visitare Cocullo mentre sfioravo con la lingua la ruvida corteccia. Rientrato nella villa, da una vetrata riconobbi l’aereo speciale che mi aspettava in uno spiazzo del giardino. Sotto l’androne incontrai la famigliola che mi attendeva per il pranzo e, tornato con loro, manifestai l’intenzione di partire: invitai pure mia moglie e i giovinetti, ma tutti declinarono l’invito perché preferivano restare fra i loro “indios”.

Dopo mezz’ora il salotto volante si posò al Fratturo (Vedi nota 1, in fondo al testo). Percorsi un breve tratto di strada, attraversando un viadotto ferroviario che quando lasciai la mia gente non c’era e salii subito alla stazione di quello che sarebbe stato il mio paese, ma credetti di essermi sbagliato perché, attorno all’edificio, trovai desolazione; sulla facciata dell’edificio lessi però il suo nome. Lì cominciò la pena: non c’era più il campo di gioco delle bocce, il giardino non esisteva più ed al suo posto avvertii puzza di urina, un “accelerato” passò sferragliando senza fermarsi. Mi avviai verso l’abitato e incontrai solo un cane randagio. Dopo dieci minuti riconobbi le prime case, che però adesso avevano porte e finestre chiuse. Pure la chiesa della Madonna era chiusa. La domenica seguente volli rivedere il paesello. Prima di tutto salii verso il borgo adibito a… “curtis” e, prima di lasciare via Canale per curvare a destra, alzai lo sguardo in direzione della fonte: mi impressionò la ferita inferta al Curro, che, seppi poi, lo avrebbero finito con una specie di bombardamento. Un viottolo mi portò all’Ara di Speranza passando sotto gli avelli del cimitero napoleonico davanti a cui era stato eretto …un muraglione: un belvedere!!! De gustibus. Il fatto è che nessuno era affacciato a quel muro. Lo spiazzo sottostante era deserto e ricordai che era sempre frequentato, anche d’inverno, da qualche pastore che vi alloggiava le bestie e soprattutto da popolane che spargevano becchime alle galline; d’estate, poi, il rilargo (che domina il paese e la valle offrendo uno spettacolo bellissimo) si animava per la “tresca”, cioè la giostra di equini che pestavano le spighe. Nella piazza della Madonna non incontrai i vecchi amici che una volta giocavano con me mentre quelli più grandi passavano frettolosi per accudire le bestie o che tornavano dai campi; mi richiamò un brusio proveniente da un locale appartenente a un edificio. Il locale era stato costruito sotto un’ala di quell’edificio ed era adibito a bar: lì trovai finalmente un gruppetto di uomini che facevano finta di socializzare fra loro. Erano diversi da quelli che avevo conosciuto: parlavano un idioma strano, un italiano alternato a cadenze e voci dialettali storpiate. Capii che la lingua italiana era in via di estinzione e le sue regole erano state stravolte pure dalle persone che le avrebbero dovuto conoscere e rispettare. Quanto sarebbe stato bello se qualcuno fosse tornato al dialetto con le sue suddivisioni (vernacolo, parlata): in mezzo a tanti ignoranti, pure su scala nazionale, …magari: sarebbe promosso a lingua ufficiale in tutta la Penisola,considerato che la parlata cocullese è molto vicina alle “lingue madri”! Mi trovai a disagio perché notai che mi guardavano circospetti, malgrado che quando seppero essere io uno di loro facessero a gara per offrirmi una tazzina di caffè, ma capirono che volevo continuare il giretto. La delusione aveva operato sulla nostalgia trasformandola in un misto di amarezza e rifiuto. Pure l’ambiente naturale era mutato: la Crucella, soffocata dalla vegetazione, non si vedeva più, il cuculo non cantava, il rivo era secco, i campi abbandonati, il paese spopolato, le case del centro storico quasi tutte disabitate e quelle della periferia sud distrutte. Mi fu possibile arrivare fino alla chiesa di San Domenico, terremotata e ammanettata da un folletto. Seppi che l’avevano ingabbiata dopo il terremoto del 2009 e già aveva scontato una dozzina d’anni di prigione, meno di quanti ne meriterebbero i burocrati e tutti i responsabili dell’abbandono. I Cocullesi avevano amato il Benedettino, uno dei primi riformatori della Chiesa, e il senso di amore devoto dovutogli si rifletteva pure sulla sua casa. Ricordai le frasi che scrissero autorevolissimi studiosi stranieri. Uno, tedesco, alludendo alla fama che deve Cocullo alla celebrazione di maggio: "La Chiesa non riuscì ad estirpare il culto dei serpenti, un'eredità del mondo antico, soprattutto nei territori popolati da serpenti: e perciò lo ha cristianizzato nei limiti del possibile" (F. Hèrmann, Saggi di cultura popolare italiana, Heidelberg 1938) (2).
Salmon (professore emerito della Mc Master University in Canada): “…Anzi, Roma talvolta addirittura incoraggiava ciò che Festo chiama municipalia sacra, per esempio a Lanuvium. In conseguenza nell’Italia rurale certe pratiche religiose dovettero certamente sopravvivere, e non è escluso che alcune cerimonie che si celebrano tuttora, come la festa dei serpenti a Cocullo e la corsa dei ceri a Gubbio, con le loro caratteristiche essenzialmente pagane, possano essere una lontana eredità di celebrazioni in onore di Angizia e Kerres” (E. T. Salmon, “Il Sannio e i Sanniti”, Einaudi 1985) (3).

Naturalmente la parrocchiale era chiusa ed io scesi a vedere i ruderi dello spitale templare e dell’annessa chiesa di Sant’Antonio, ingranditi sul piccolo complesso dei monaci di San Rufino, dal solerte e rigoroso celestino Don Giovanni con i soldi di un ricco Templare francese (emulo degli Antoniani di Vienne) di passaggio pel Morrone con Carlo II d’Angiò (4). Quanta storia ignorata!
Ero abituato a scalare le Montagne Rocciose e perciò mi fu relativamente facile arrivare, in fondo alla rua, a via Caluisci (da tempo rinominata Via Piazza Larga). Scesi all’Aravecchia, che quando partii era il centro pulsante e propulsivo dell’attività contadina, passando sotto l’arco della “Porta renovata”, non più appoggiato su una stalla che era stata abbattuta …perché un architetto originale aveva stimato opportuno costruire al suo posto un belvedere come quello di Firenze ed ora, non avendo esso appoggi, era pericolante e abbandonato, come il soprastante “mulino delli schiavi”, altra pagina di storia patria ignorata dai pochi residenti ed anch’esso sacrificato a quel maledetto belvedere. Lungo la discesa vidi i ruderi dei numerosi “pagliai di Panecaldo”: mi si strinse il cuore e appena vidi, passata la curva, i pagliai e le stalle dell’Aravecchia ridotti press’a poco nelle stesse condizioni tornai indietro rattristato. Su per “il Montanaro” … che disastro! Pietre e qualche muro amorevolmente recintato con la striscia del PERICOLO. Volevo coprire il breve tragitto per rientrare nella cinta medioevale salendo da via Pacchiarotta (ora ribattezzata con il nome di un’altra via tolto dal posto giusto) ma un gruppetto di macerie mi indusse a cercare un passaggio più comodo: feci dietro-front e risalii per “via Porta di Manno” (pure questa era stata defraudata, nel nome, da un’altra via). Dopo una piccola curva a gomito ed aver attraversato un arco che ai miei tempi conservava i cardini bruniti sotto due stupende aquile di ferro, mi trovai di fronte al castello. Mi parve più basso e dopo una breve salita mi avvidi che di esso era rimasta solo la torre, in verità già da allora adibita nel primo piano a ricovero per galline e conigli dov’erano state le carceri del feudatario. La mania dei belvedere (in un paesino che ha subìto un calo demografico impressionante) ha trasformato in una spianata di cemento il giardino pensile che zì’ Nicola aveva bene o male conservato sia pure trasformandolo parte ad orto e parte a giardino.

Non vidi pecore (che qui ai primi del ‘600 erano 8.000): erano scomparse con la parte bassa del paese e con la svanita suggestione dei tratturi, opacizzata prima dal fumo della vaporiera a cui erano agganciati carri zeppi di ovini, ed il profumo del mosto e dei fiori che rivivono nelle poesie che allietano solo quei pochissimi che le leggono o rileggono con attenzione ed amore raccogliendo i messaggi dei mercanti-pastori! Scrisse il poeta raianese Postiglione al tramonto della transumanza: LE MANDRE (5) IN CAMMINO- Hai incontrato qualche mandra in cammino lungo le nostre strade maestre? Avrai visto che davanti alla mandra, come il capitano davanti alla compagnia dei soldati, c’è il grosso montone con la campana al collo che col suo rintocco continuo invita le pecorelle a tirar diritto per la strada. I cani maestosi, che proteggono pecore e pastori dai lupi e da chi vuol far loro del male, tu li vedi andare di qua e di là per i lati della mandra; corrono in testa e tornano in coda come buoni sorveglianti per assicurarsi che tutto vada bene. E dopo le pecore vi sono i pastori con le lunghe mazze, i pantaloni coperti di pelle e il cappello colle fettucce che fanno da sottogola, affinché il vento non lo tolga dal capo. Vecchi e giovani pastori, colle facce abbronzate dal sole e indurite dalla tramontana: i più schietti rappresentanti della operosa, tenace volontà della nostra razza antica. E poi ancora, dopo tre o quattro mandre, vengono le mule robuste con i basti carichi. Portano tutte le robe che occorrono per il lungo viaggio e per la lunga assenza: le reti per tenere le mandre riunite di notte, gli utensili per le cucine, per la mungitura del latte e per la preparazione del formaggio ed anche le provviste alimentari per i pastori. E il leggendario ”Duca Sarchia”, il cui mistero io, prima di partire, avevo cercato di far dissolvere, senza esserne convinto (e forse a ragione perché esso è troppo intricato), introducendomi caparbiamente nel garbuglio delle oscure vicende delle dinastie medioevali, ed a cui anche molti miei amici erano interessati? Carneade: pochi ne hanno sentito parlare e agli altri non interessa perché la sa figura non compare su “quel” youtube… Fino a quel momento avevo stretto i denti per accertarmi che ciò che avevo intuito all’arrivo era vero: sì, era proprio vero! Fui preso da brividi e da tremore: mi toccai istintivamente le tempie, ma non avevo febbre. Decisi di tornare subito alle Montagne Rocciose, i soldi del tronco erano tanti; però mi accorsi che per la fretta non avevo detto alla scaglia che intendevo tornare e quindi non avevo il biglietto per un ritorno comodo: infatti corsi traballando all’idroscalo dell’Aralizza, ma trovai solo il letto asciutto del rivo. Arrivai alla stazione ferroviaria e il capo-stazione mi disse che un paio di “accelerati”al giorno fermavano. Mi stesi su una panca della camera d’aspetto e aspettai sette ore. Quando giunsi al villino che mi aveva regalato la scaglia avevo anche un forte dolore al petto. Ero stremato. Caddi fra le braccia della mia sioux, la quale fece subito chiamare il capo-tribù e lo stregone. Mentre quest’ultimo cercava in tutti i modi di rimettermi in sesto, l’altro accompagnò mia moglie, con amorevole e persuasiva fermezza, nella stanza accanto. Poi …Cala il sipario.

Note
(1) Località della campagna vicina al paese.
(2) Di più: egli aggiunge che Cocullo “deve la fama” a San Domenico.
(3) Anche il Salmon, alludendo al serpe come simbolo di religiosità primitiva, ne faceva risalire l’origine al mondo preromano, forse addirittura nella culla dell’idolatria mitologica.
(4) Vedi le storie dei Templari e dei Celestini nonché i manoscritti datati uno 1515 e l’altro 14 luglio 1616 di Superiori degli Agostiniani, manoscritti conservati nel locale Archivio com.le.
(5) (NdA)- Il gregge in cammino.

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