Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#27 - 16/02/2021
San Rufino<br>
(Forca Caruso)

San Rufino
(Forca Caruso)

Forca Caruso in epoca imperiale era denominata “Mons Imeus”. In Latino “imus” significa “basso, profondo”; ”imeus” è un derivato di “imus”: ciò che riguarda la parte bassa, che, riferito al “Mons”,traduciamo con “la falda (del monte)”, “il valico”. A Forca nel Medio Evo fu cambiato il nome: “Furca Ferrati”, che traduciamo “di (chi) è ferrato”, cioè “il valico di chi è munito di ferro”: in parole povere non lo si poteva passare sul ghiaccio senza scarpe chiodate a causa delle tormente di neve né senza armi nel covo preferito dai briganti per gli agguati. Nella zona di Forca sin dall’Alto Medioevo sorsero due grandi monasteri, San Nicola Ferrato e San Rufino Ferrato, in cui i monaci praticavano ascesi e preghiera, oltre a soccorrer ed ospitare nei rispettivi ospizi i viandanti ed oltre a disboscare appezzamenti di terreno per poi lavorarli ed a svolgere attività caritativa e didattica ai contadini che pian piano popolarono i dintorni dei loro monasteri: giustamente la loro è stata definita”Congregazione Cassinese di Prima Osservanza”. Due secoli fa Luigi Colantoni ha affermato che Sotto il Vado di Forca Caruso e sotto l’antico Arco di Livia Augusta, vicino all’antica stazione militare ed ospitaliera del monte Imeo, a contatto della via Valeria, alle falde del medesimo monte Imeo e del monte Baullo, a 1100 metri dal livello del mare, verso il V secolo dell’era cristiana sorse, sotto il titolo di San Rufino, un grandioso monastero ed ospizio con vasto fabbricato, come dimostrano gli avanzi de’ rottami e delle macerie di pietre da fabbrica nell’ampia area ove esso si ergeva nella valle che ancora ritiene la denominazione di San Rufino…

San Nicola di Bari fu noto agli Abruzzesi con l’appellativo “Ferrato”; era nato alla fine del 200 in Turchia e forse morì in un monastero a Myra nella prima metà del 300; il grosso dei suoi resti mortali furono traslati a Bari nell’XI secolo. Alla fine del VI secolo se ne era diffuso il culto nell’Italia centrale e quindi anche a Roma (la Marsica, com’è noto, confina con il Lazio) nel VI secolo. Nel reliquiario conservato in questa chiesa parrocchiale sono molte reliquie di San Nicola e fino al 1915 (prima del terremoto della Marsica) fu titolare di una delle due parrocchiali.
Non lontano dal monastero di San Nicola sorgeva quello di San Rufino. Questo monastero già ricordato in documenti del sec. VIII d. C. era edificato nel sito, dove oggi si vedono i ruderi del Casale Masciola, a poca distanza dal luogo ove sorgeva quello di San Nicola di Ferrato. (Grossi-Tarquinio). Il monastero di San Nicola era ubicato un paio di chilometri a destra del passo montano, mentre quello di San Rufino era a sinistra e vicinissimo (itinerario montano) al confine cocullese. Pure questo era costituito, oltre che dal monastero, da un’altra grande costruzione, situata presso i resti di un’antica stazione militare e di riposo, che fungeva da ospizio e foresteria.

San Rufino era il vescovo di Amasia (Turchia) e fu martirizzato in Italia nella prima metà del 200. Era stato incarcerato con il figlio Cesidio durante una persecuzione, ma, convertito il carceriere, partì verso la nostra penisola rifugiandosi nella Marsica. Qui fondò una chiesa lasciandola a Cesidio per poi vagare nell’Italia centrale fermandosi finalmente ad Assisi. Anche in quella città fu arrestato, ma stavolta i carcerieri non si convertirono: fu ucciso e poi gettato nel fiume Chiascio (Vedi nota 1, in fondo al testo). Pure Cesidio fu martirizzato: era andato a predicare il Vangelo nella capitale dei Marsi, Marruvio (odierno San Benedetto) ed aveva avuto il tempo di fondare chiese e un Ordine monastico (quello del monastero di San Rufino Ferrato?). Del Padre avemmo notizia da Pier Damiani.

Il monastero di San Rufino forse nacque qualche decennio prima dell’altro, in una zona impervia dove vivevano degli eremiti non organizzati e spinti dalla generosità a soccorrere i pellegrini e i viandanti. I due monasteri non furono (anzi ne anticiparono tanti) da meno di quelli più famosi, dove si accoglieva e conservava la cultura negli “scriptoria”; anche lì s’impartivano le principali nozioni della lingua (grammatica, ecc.), ma specialmente della coltivazione dei campi: insomma l’attività operosa, comune ai monasteri benedettini che più tardi sarebbe stata consacrata nell’ ”ora et labora”benedettino. Con il passar del tempo le necessità erano aumentate, i disboscamenti erano diventati più nutriti: la gente dei paesi vicini, ammirata ed attirata da quella operosità, affluì piano piano, casette sorsero attorno ai monasteri e i rustici appresero a lavorare come i monaci, i quali offrirono rifugio a quelli nei momenti di pericolo. Purtroppo a cavallo fra il VII e l’VIII secolo i due monasteri furono preda di devastazioni. Il grosso dei monaci di San Nicola F. si rifugiarono nell’ospizio dei proietti che avevano a Pescina e, per l’attività benefica da loro presto ripresa (accoglienza ed educazione dei bimbi abbandonati nonché dei bisognosi), furono abbondantemente rimunerati; invece i monaci di quello di San Rufino fu distrutto nel corso di un’incursione saracena, e i religiosi si dispersero sulle montagne vicine: da quel momento si persero le tracce degli sfortunati.
Ora mi dovrei porre delle domande, ma la fantasia è più prepotente del desiderio, e allora continuo io. Il monaco era nato nel vicinissimo (percorso montano, cioè in linea d’aria) paese di Cocullo. I suoi genitori non erano poveri: possedevano una casetta e alcuni fra pagliai e stalle: si fece dare qualche fabbricato e, siccome i locali erano ubicati vicino al rio Pezzana (che ai suoi tempi gareggiava con i fiumi per l’enorme portata d’acqua), ritenne che quel posto fosse ideale per traghettare e accogliere viandanti e pellegrini bisognosi di ricovero e assistenza. Così poté riprendere l’attività forzatamente interrotta: la sua vocazione. Ammirati per la carità che quello dispensava pure ai paesani che necessitavano di cure, i locali lo gratificarono anche materialmente ed egli fece degli adepti, i quali ne continuarono l’opera alla sua dipartita. Le disponibilità aumentavano e fecero sì che i casolari fossero adattati, resi più decenti e più adeguati alla bisogna. Attorno al Mille Ruggero, conte di Celano, fece un grosso lascito (risulta da atti ufficiali che in quel tempo il conte elargì una cospicua ricchezza ai monaci di San Nicola Ferrato, ma io non ho letto documenti attestanti che uguale donazione l’abbia fatta a quelli di San Rufino; allora, scartata l’ipotesi che qualcosa mi sia sfuggito o non abbia saputo cercare l’atto, devo pensare che il beneficio sia stato fatto a tutti i superstiti dei due monasteri ovvero (e questo è più plausible) che il titolato, cercò di vieppiù accattivarsi, come facevano quasi tutti i suoi colleghi, il pontefice preoccupandosi soltanto di quelli di San Nicola, i quali dipendevano da una sua Diocesi, e non degli altri, che dipendevano da nessuna Diocesi, ma anzi forse erano ancora disorganizzati. Poco prima del 1300 l’ospizio si accrebbe ulteriormente quando vi trovò ricovero un ricco Crociato francese al seguito di Carlo d’Angiò il quale si recava sulla Maiella a prelevare Pietro del Morrone per farlo eleggere papa: lui parlò del futuro Santo agli addetti all’ospizio ed uno di questi, che si chiamava Giovanni (2), fu attratto dal carisma e dalla fama del futuro papa santo. Partì con il Crociato per la Casa Madre dei Celestini e poi restò lì: divenne così fedele a Celestino che quando questi ascese al Soglio pontificio il Cocullese ebbe il priorato dell’abbazia.
…fra i tre Commissari delegati a scegliere il Superiore dei “Monaci del medesmo ordine (3), huomini providi, et honorati che amano Dio e il Monastero…”; a pag. 195 specificò che fra questi c’era “Giovanni de Tutolio” (4); pag. 456: costui era “de Tutulio. Nel 1295 fu eletto e fatto successore, il quale nel 1297 ottenne la confermazione dell’Ordine dal medesimo Bonifacio… (Marini, Abate celestino nel ‘600).
Monsignor Febonio precisò …Giovanni era di Cocullo (pag. 338 di “Historia dei Marsi”, 3° libro della ristampa anastatica dell’Ed. De Cristofaro, Roma, 1985). Ancora: Alla notorietà di questo paese ha contribuito un uomo molto religioso, D. Giovanni da Cocullo, uno dei primi frati celestini innalzato alla carica di prefetto generale dell’Ordine nel 1299; per la sua costante applicazione della scienza morale e per le sue eccezionali doti d’animo fu particolarmente caro all’Ill.mo Tommaso d’Ocra che lo ritenne degno di affidargli l’esecuzione testamentaria delle sue ultime volontà” (op. cit. p.276). Un paio di lustri prima la notizia dell’elezione di frate Giovanni a Superiore dei Celestini era stata riportata anche da Emilio de Matteis ne “Le memorie storiche dei Peligni” (v. la trascrizione curata da Mattiocco-Papponetti per conto della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, Ed.Libreria Colacchi, Aquila 2006, p. 219): “D. Giovanni di Cucullo fu Generale in tempo di S. Pietro Celestino, e la seconda volta nell’anno 1299”. Ho riportato alcune attestazioni che in parte certificano il raccontino di nonna. Ora mi sia concesso di collegarli con il collante dell’intuito. Due secoli fa lo storico marsicano L. Colantoni, confermando che i monaci dei due monasteri in parola – i quali osservarono sempre la Regola benedettina – erano poi confluiti (1300) nella Congregazione degli Spirituali (questo il primo nome che il fondatore dei Celestini diede ai seguaci) e che il papa santo aveva emanato una Bolla (1294) unendoli al monastero di Santo Spirito, cioè quello di San Nicola nella Diocesi marsicana (e quindi soggetta al Vescovo dei Marsi), e quello di San Rufino che non vi era soggetto (è noto che il clero regolare dipende direttamente dal papa). Morto San Celestino nel 1296, il successore Bonifacio VIII con una Bolla del 1298 annullò parzialmente quella di Celestino e stabilì la dipendenza della chiesa e dell’ospizio di San Nicola dall’ospedale romano di Santo Stefano in Sassia. Da allora i monaci del monastero di San Nicola Ferrato, rinfrancati nel ricovero e ripresa l’attività benefica, ricevettero molte donazioni ed espansero i possedimenti, mentre quelli di San Rufino Ferrato furono avvolti da un denso nebbione. Che era successo? Scelgo fra le mie ipotesi la più verosimile: l’anno della Bolla di Bonifacio (1298) coincise con un priorato di Frate Giovanni. Questi puntò i piedi avvalendosi delle sue aderenze alla Corte francese, la quale da tempo aveva le sue mire sulla Chiesa. Filippo il Bello era anche conte di Angiò e, minacciando il Papato di suscitare scandalo e magari anche di anticipare la Cattività Avignonese (1303-1377) ricattò il papa con cui scese però a compromessi e Don Giovanni approfittò della situazione. Sappiamo che Don Giovanni, o “frate”Giovanni, aveva fatto degli adepti: alla sua morte uno di questi o tutti insieme continuarono a svolgere l’attività caritativa nello “spitale”.

Dopo due secoli il Superiore degli Agostiniani emanò una Bolla che è conservata nel locale archivio comunale e di cui riporto un estratto:
(Trad. libera)
GIOVANNI Velasco, commissario generale e procuratore di Sant’Antonio Viennese per tutto il regno di Sicilia al di là e al di qua del faro. Avrete saputo che, essendo stato accordato e consentito dalla sede apostolica alla comunità del Santo Abate e all’ordine di Sant’Agostino della diocesi viennese, e quindi anche al predetto monastero fuori le mura di Napoli, di costruire ospedali, cappelle, case, benefici, oratori, ed altri luoghi pii esistenti sotto il nome del suddetto Sant’Antonio e quelli che saranno costruiti successivamente, spettano e sono di pertinenza dell’abate e dell’ordine, e a quelli sono assoggettati, non invece ad altre chiese o a secolari di paesi, luoghi, villaggi e comunità. Eccetera eccetera
Per cui venendo io, Giovanni predetto, a sapere di un ospedale sotto la denominazione dello stesso Sant’Antonio, sito e posto fuori e vicino le mura del castello di Cocullo, nella via e presso i muri e la cappella di Sant’Antonio da Padova,
In fede ho ordinato che fosse fatta la presente bolla sottoscritta con la mia mano e l’ho emanata in detto castello nell’anno del Signore 1537 (5), XI Indizione, esattamente nel giorno 16 del mese di novembre, sotto il pontificato di Paolo III. Giovanni, quale commissario, di mano propria ha firmato.


Il contenuto di questa Bolla ebbe conferma l’anno successivo:
Noi, Giovanni Battista Vittorio, Patrizio romano della Rettoria Generale e dell’Ospitale di Sant’Antonio, (quello) di Sant’Antonio Viennese, siti e posti fuori e vicino le mura di Porta Capuana di Napoli, Superiore Generale per concessione e dispensa apostolica,
1- e commendatario perpetuo ed anche amministratore generale di tutti i benefici sotto il titolo di Sant’Antonio esistenti nel regno di Sicilia al di qua e al di là del faro, al noi diletto chierico Marc’Antonio Risciotto (Lisciotti?)
2- del paese di Cocullo, diocesi di Sulmona, (inviamo) un saluto nel Signore. L’onestà di vita e di costumi e altri meriti lodevoli di virtù dei quali abbiamo saputo da testimoni che tu orni la tua persona molto degna di fiducia, ci inducono a trattare te con speciali favori.
3- Pertanto, siccome abbiamo accettato che la chiesa o cappella di Sant’Antonio Viennese, sita e posta nel paese di Cocullo, diocesi di Sulmona, sia parte e grancia della detta nostra Rettoria Generale e dipenda da essa, ora (ci siamo accertati) che è stata carente e manca
4- di un legittimo amministratore. Noi, volendo badare alla retribuzione di quello, (volendo) provvedere a qualche amministratore idoneo, (volendo)ti fare uno speciale
5- favore …… , eleggiamo, scegliamo e nominiamo come amministratore e governatore di [detta?] cappella che non è dotata della cura delle anime. Ti diamo l’incarico, la cura… e l’amministrazione tanto delle cose spirituali quanto delle temporali di detta
6- cappella
ecc. ecc

Dato a Roma, fuori e vicino Porta Angelica, nel giorno
23-quattordici luglio milleseicentosedici, indizione quattordicesima, dodicesimo anno del pontificato del Santissimo Signore Nostro papa Paolo V.
Giovanni Battista Vittorio, Generale e Commendatario


Come allo scontro di nuvoloni neri segue il lampo, così gli eventi storicamente accertati non possono restare isolati: essi devono avere delle conseguenze, magari banali, ma devono averle ed è/sarebbe un peccato imperdonabile abbandonare quei ricordi per troppo tempo trascurati: l’incuria dura da almeno novant’anni. E dire che nel 1865 ancora si officiava nella chiesetta di Sant’Antonio (la vecchia cappella adattata a chiesetta)! Tolti i numerosi cerotti al paese almeno per renderlo accogliente, quella ricchezza condannata all’oblio potrebbe attirare l’attenzione degli studiosi e, per il paesino moribondo, una delle maggiori risorse turistiche.

Note
(1) Una curiosità (?): a Cocullo una località di montagna porta lo stesso nome.
(2) Quando ero piccolo ricordo che la nonna paterna mi parlava di un certo frate Giovanni, cocullese, che in tempi lontani era andato in Palestina.
(3) San Celestino fondò la Congregazione dei Celestini in seno all’Ordine benedettino.
(4) Nel dialetto locale “Cocullo” è corrotto in “Cucùgli’”.
(5) Si ponga attenzione a questa data: è posteriore di un secolo abbondante al Priorato di don Giovanni.

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