Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#21 - 05/01/2021

Il borgo (ignorato)

Nel calderone della fantasia bolle una polenta ed erutta schizzi. Questi evocano una miscela di ricordanze: reperti, memorie, leggende, documenti. Schizzano qua e là, disordinatamente, slegati nelle apparenze che ti portano ad una intuizione e magari ad una realtà che fu: e allora la polenta è pronta. Già, perché quei ruderi oggi sembrano inanimati e nello stesso tempo sono troppo eloquenti.
Quando, ai tempi della Guerra Sociale (ventuno secoli fa), Strabone seguì il percorso della vecchia Via Valeria (Geografia, 5, 11) citò cinque agglomerati: Tivoli, Varia (Vicovaro), Carsoli, Alba Fucense e Cocullo. Dalle nostre parti (agli “Strani”?) tornò indietro per le difficoltà che cominciò ad incontrare in un territorio infido e impenetrabile, cambiando direzione per raggiungere Corfinio e, dopo, il mare. A differenza di Varia, Carsoli ed Alba, che definì “colonie”, Cocullo fu definito “polis”, che in greco ha tanti significati fra cui “città” e “centro fortificato”: siccome l’itinerario seguito non attraversava Cocullo, ma ne passava presso (“plesìon”), c’è da ritenere che lo studioso abbia visto il nucleo abitato scendendo dalla montagna, e quindi non proprio da vicino (a otto chilometri di distanza dall’attuale Casali, specificò molto più tardi De Nino).
Dunque esso non poteva essere una grande città, anche per l’angusta valle in cui sorgeva: le ultime case potevano al massimo arrampicarsi sulle falde dei monti opposti, laddove i pendìi non sono aspri; quindi Cocullo era un centro fortificato italico, proprio come quando, poco dopo, fu definito “oppidum”. Era un po’ l’arce della città greca. Che poi quell’oppido dominasse su un pago che si stendeva a valle non l’ho ipotizzato solo io, che pure mi sono basato su pochi reperti e sulla relazione del vescovo della Diocesi, secondo cui nella visita pastorale del 1356 trovò il paese frazionato in “ville”, ma l’hanno scritto illustri studiosi.

Ora stabiliamo dove potesse sorgere quella rocca. Rilevato che le parti fortificate erano ubicate nei punti più alti e inaccessibili dell’abitato, considerato che le rustiche case delle epoche successive in genere venivano erette sui resti di precedenti strutture, possiamo concentrare l’attenzione sulla zona del Curro o/e su quella del rilievo sottostante: se si trattava di una roccaforte attrezzata, ambedue le collinette ben potevano costituire la stessa, tanto più se si accetta la versione che coniuga la “pòlis” straboniana con l’”oppidum” italico. Soffermiamoci sulla collinetta più alta che domina l’altra e, più giù, tutta la valle. Mi riferisco alla gibbosità che si eleva fra via Canale e quella che fino ad epoca recente era nota come via del Calvario e che adesso sembra un traversa di via della stazione. Pur non essendo lontano dal colle sottostante che è ancora scarsamente abitato, esso accoglie i ruderi di molte abitazioni adibite (evidentemente quando erano state abbandonate) poi a pagliai, tranne tre ristrutturate recentemente o recentissimamente. Dallo spiazzo noto come “Ara d’ Sp’ranza” il paese è dominato da tutti i lati. Al di sopra dello spiazzo, a poca decina di metri, erano stati praticati dei fossi stretti e profondi poi usati come avelli in ottemperanza al napoleonico editto di Saint-Cloud. Ancora più su io e mia sorella Giovanna vedemmo alcune pareti diroccate di un piccolo locale: in un muro si apriva una feritoia dove far passare i proiettili degli archibugi; da ragazzo, ricordo, lì sorgeva la “casa dei frati”, in cui Pietro custodiva poche pecore. La fantasia mi suggerisce un abbinamento non troppo felice: Pietro è stato un superstite e l’ultimo priore della Confraternita di San Domenico (ai primi del ‘600 le Confraternite cocullesi possedevano una parte cospicua delle ottomila pecore del paese).
Da quella parte non pare che vi siano rovine, eccetto la fonte di Canali ancora funzionante e costruita nel ‘700. Quindi torniamo allo spiazzo, dove quando ero piccolo ho visto “trescare” i contadini che non usufruivano della macchina trebbiatrice (la “tresca” era una rozza trebbiatura del grano: consisteva nel far roteare tre o quattro equini legati fra loro sul grano sparso nell’aia).
Dallo spiazzo una viuzza volge verso sinistra e, superato un dislivello abbastanza marcato che forse immetteva, dopo una piccola e breve scalinata, nella stessa sottostante viuzza che s’inoltra verso un folto nucleo di ruderi di strutture abitative in gran parte recentemente adibite a pagliai, poi abbandonati, che oggi restano a simboleggiare l’agonia dell’economia agro-pastorale (la pastorizia rese floridi i centri di montagna dove si praticava in modo quasi esclusivo prima dell’affrancamento del Tavoliere pugliese, e infatti la fine di quella ha segnato la fine anche di Cocullo). Ma è chiaro che prima quei pagliai erano state le case di un borgo che si arrampicava al colle dall’attuale via della stazione per coprire lo spazio che a sinistra porta a via Canale: lo testimoniano pochi lacerti sbiaditi di affreschi ed alcune tracce di balconi.
Almeno quegli spazi, se non anche qualche struttura, potrebbero essere recuperati ed essere utili al demanio comunale. Si è parlato di casa di riposo: benissimo, poiché il posto è ideale per il paesaggio che domina e per l’aria pura che si respira; ma lo spazio disponibile è così vasto che potrebbe accogliere varie strutture ricettive e, perché no?, pure un’area da offrire gratis a cittadini desiderosi di abbandonare metropoli invivibili e vivere in pace. Troppi soldi, si dirà: è vero; ma una certa dose di coraggio, squilibrando il bilancio, potrebbe farlo riquadrare in poco tempo e poi portarlo ad un avanzo notevole. “Festiniamo” e buona fortuna.

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