Abbruzz'
Nella casa romana mamma (chi ricorda “la maestra Clara”?) recitava spesso questi versi, che senz’altro sono un minuscolo quanto plastico affresco della sua terra d’origine: Roccapreturo (Aq). Più volte le ho chiesto chi ne fosse l’autore. Mi rispondeva sempre di non ricordare… Eppure lei aveva una memoria di ferro. L’ho cercato inutilmente io, l’autore, perché quel bozzetto stupendo non poteva restare nell’anonimato. Mamma era impregnata di studi umanistici quanto era modesta…
ABBRUZZ’
Dalle cime cchiù bbianch’ a gl’ mare/Va gl’ fium’a crapicce ch’ corre;
tra la valle pretosa cumpàre/‘n’ paisìtt’, ‘na chiesa, ‘na torre.
Oh, da quant’ cuntàt’ so’ l’ore/Da che manco e ddò’ aspetta ‘n’core!
Pe’ lle prate la mandra repasce,/pe’ lle terre revann’ gl’aratre,
da gli bbosch’ resonen’ l’asce/i le vecchie canzò’ d’ gli patre.
Oh tu, Abbruzz’, tu, terra d’amore,/chi è luntàne te pensa i c’ more!
Ero bambino: è bello vivere di ricordi, specialmente quando nubi nere si profilano all’orizzonte. Quelle nubi appannano l’anno vecchio e in passato si festeggiava l’anno nuovo sperando che fosse migliore; quest’anno si aspetta tempesta.
Ero bambino: è bello vivere di ricordi.
Il campanile si stagliava nel cielo azzurro mentre accoglieva i piccioni che avevano svolazzato intorno alla vicina cupola. Lo scampanio li aveva impauriti: succedeva sempre così, ma ormai erano abituati a quel suono e quando la campana grande rallentava i rintocchi che si perdevano nel brusio della valle, essi si riavvicinavano alla dimora abituale. Le rondini si inseguivano garrendo festose intorno alla torre medioevale quasi che con i loro garriti la volessero esortare a svelare i segreti che custodisce. Il cuculo della selva, pigro, si svegliava tardi e le sue monotone preghiere del mattino si prolungavano fino all’ora della siesta; invece il rivo non dormiva mai, e lo sciacquio notturno a volte diventava brontolio quasi volesse esprimere rammarico per non poter prolungare i giochi con i fanciulli. Allora il chiarore della luna si riverberava sulla torre antica proiettandone l’ombra sull’Aracella e i genitori, dopo cena, mi trascinavano sulla terrazza dove io confrontavo lo splendore delle stelle con le luci, lontane, dei fuochi delle carbonaie accese sui monti che dominano Castrovalva. Le serate estive si concludevano con le prime lezioncine paterne e materne: sulle carbonaie, sul carro al timone della stella polare… Poi, scesi nella mia cameretta, mamma mi metteva a letto e io mi addormentavo quando lei, curva sul mio lettino, con voce sommessa cantava la ninna nanna di Johannes Brahms:
“Ninna nanna mio ben, riposa seren/un angiol del ciel, ti vegli fedel.
Una santa vision faccia il core estasiar/una dolce canzon, possa i sogni cullar.
Buona notte piccin, tu riposa carin/riposa tranquil, bambino gentil.
Quando l'alba verrà, sorgerai dal lettin/se il Signor lo vorrà, sorgerai o bambin.Buona notte piccin, riposa carin, riposa tranquil, bambino gentil.
Oggi quel mondo fatato si è capovolto nel giro di ottant’anni. Forse ancora pochissime mamme cantano le ninne nanne ai loro bambini, perché a loro volta sono nate dopo che era scomparso quel mondo, che per le generazioni venute dopo di me è surreale; senz’altro per i bambini sarà fantastico e questa cronachetta apparirà loro come una favola.
Anche la natura non è più “quella”: i piccioni non svolazzavo più intorno alla cupola che è imbracata dal 2009, il cuculo è scomparso e forse è stato vittima di qualche virus se non si è suicidato per lo scoramento, il rivo dove giocavano i bambini più grandi è secco e il suo alveo accoglie solamente le acque torrentizie, le carbonaie sono spente, il sole è divenuto asfittico e riesce a cacciare le unghie, anzi gli artigli, per pochi giorni nel tentativo di difendersi dall’invadenza invernale; per illuminare debolmente le stelle si serve di un generatore di corrente elettrica, le mamme (quando e dove i piccoli si accovacciano davanti al focolare acceso fra una mamma e un papà) per distrarre i figli non raccontano più favole e sono costrette a ricorrere ai “ta-zum” moderni che irritano i nervi e preparano involontariamente, così, una società convulsa e nevrastenica. Forse anche le nonne appartengono a generazioni del nuovo mondo; però stimo opportuno suggerire alle nonne che hanno avuto la sfortuna di partorire mamme snaturate, che abbandonano i figli ai nonni per frequentare le discoteche, la delicata e deliziosa ninna nanna che Pascoli dedicò all’orfano (il “fanciullino” ch’era nel poeta, il quale, ancora bambino aveva perduto il padre assassinato, riteneva che la nanna si attagliasse al sonno del povero padre morto innocente):
“Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca./Senti: una zana (1) dondola pian piano,
un bimbo piange, il piccol dito in bocca;/canta una vecchia, il mento sulla mano.
La vecchia canta: intorno al tuo lettino/c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.
Nel bel giardino il bimbo s’addormenta./La neve fiocca lenta, lenta, lenta.”
(1) zana significa culla
Sono presenti, insomma, tutti gli ingredienti tipici della poetica pascoliana, dall'assenza delle figure genitoriali (Pascoli rimase presto orfano) alla casa come nido protettivo, ma fermarsi qui sarebbe limitante. Di questo breve componimento è bello sottolineare la presenza e il ripetersi di gesti millenari, della cura dell'adulto per il bambino, un affetto che permette alla vita di proseguire nella sua cantilena, di generazione in generazione, con una lentezza della quale quasi non ci si accorge, con un incanto lieve come quei fiocchi di neve che si posano ad uno ad uno sul terreno fino a renderlo completamente bianco. (Wikipedia)
Io, per conto mio, son vissuto in quel mondo e lo rivedo attraverso l’osservatorio del paesello natìo.