Il Tampone e la Peste
Quanto più s’inclina l’asse terrestre, tanto più si spolverano termini vecchi per appiccicarli a situazioni nuove con un più o meno azzeccato significato metaforico.
Nei primi anni delle Elementari ricordo che alcuni bambini “bacchettati” dalla maestra nevrastenica (allora molti insegnanti, i più, sapevano plasmare gli scolari, ma altri forse non sentivano la missione e usavano facilmente la “bacchetta”: nessuno di questi finì in Cassazione o sul patibolo) si vendicavano, una volta tornati a posto, afferrando le mosche e, dopo averle stordite, le catapultavano contro la maestra incapace di educare con il pennino capovolto e infisso sul piano del banco. Quando i proiettili alati colpivano il collo della maestra lo sparatore, serio serio, prendeva la carta assorbente (sostituta del tampone) e asciugava le macchie d’inchiostro facendo finta di asciugare la pagina del quaderno. Non ho mai fatto (o “usato”?) il “tampone” (quello del vocabolario ultramoderno); l’altro (un piccolo dispositivo di legno, ovale, in cui avvolgevo la carta assorbente per non macchiarmi le mani mentre asciugavo) lo usai abbondantemente ottant’anni fa per asciugare l’inchiostro attinto al calamaio; ora, per non confondermi le idee, non vorrei sapere in che consista esattamente il primo, anche perché mi pare di aver capito che esso è una specie di termometro senza scala, ma con una scala sottintesa e precaria ai cui estremi sono due poli: piano terra e pianerottolo. La scala deve essere composta da sette gradini e se, poniamo, cadi al terzo o quarto gradino, ti rompi il collo e ti portano all’ospedale, dove di tamponano (non portandoti sull’autostrada ma in corsia) e, se ti va male, puoi finire legato alla manzoniana “colonna infame” come i poveri igienisti colti a disinfettare. Avete capito qual era il tampone dei tempi miei. Esso poteva “coprire” una birichinata magari troppo impertinente, ma una birichinata; oggi mi pare che con quella parola si voglia indicare un esame che ti può spedire fra gli appestati: evitiamo l’uno e gli altri. E qui il discorso si fa serio: ti fa pensare ai tubi della terapia intensiva, a quei tubicini che ti fanno invidiare i morti della peste di Atene, quelli che, intontiti e indifferenti alle leggi morali, spiravano dopo aver dato sfogo al piacere dei sensi nei templi sacri (Tucidide- “Guerra del Peloponneso”).
Rinnovo l’appello: evitiamo di finire intubati se rispettiamo le regole che ci impone la prudenza. Questo fecero i Cocullesi nelle due ondate della peste che nel ‘600 a Milano si diffuse in forma bubbonica; proprio oggi che la Medicina è progredita notevolmente vogliamo aumentare la durata della pestilenza; vogliamo comportarci peggio di come si comportarono i Cocullesi quattrocento anni fa?
A Cocullo le avvisaglie si erano già avute alla fine del ‘500: il 17 gennaio del 1597 alla tradizionale festa di Sant’Antonio …ciera poca gente (delibera dei massari 23.2.’597). Ma la calamità infierì negli anni successivi: nel 1647 solo nella parrocchia di Sant’Egidio si contarono trentatré morti contro una media annuale di diciotto; due anni dopo il numero dei morti si era moltiplicato (107 nella stessa parrocchia): …quando la gente della nostra terra se morino de fame pero chi à qualche quatrino nona da Chi comprare lo pane (del. 6.1.’649) e ...come sarrebbe necessario pigliare uno medico per che indennemo che vi sono molti infermi per la nostra Terra (del. 15.5.1649) l’anno precedente, cioè nel 1648, non si era svolta ai Casali la cerimonia del 15 agosto. in onore dell’Assunta. Nel ‘647 Don Cherubino Gentile era stato nominato Rettore della chiesa di Santo Egidio e morì appena due anni dopo: …voi altri sapete Tutti la morte della benedetta anima di D.Cherubino vedete che la chiesa di San Domenico e Cosi anco il popolo patisce pero e necessario mettere uno prete o per dir meglio uno Curato… (LC, Arch. Comune di Cocullo). Nel ‘656 arrivò la seconda violenta ondata della pestilenza, e allora si decise di bloccare il paese: …come sarria necessario che alle porte vese facciano le chiave accio si possa entrare per loccorrenzie dell’Università: …che si facciano dette chiave et alli sticcato ve se faccia il Cancello accio se possa serrare et aprire è se possa fare la deligentia per servitio dell’Università per le occorrenze che potessero venire… (del. 6.8.’656). Due mesi dopo: …e capitannoce alcuno che vada alloco sospetto che abbia da stare alli luoche dove sarra destinato accio non socceda qual che male... concetto poi perfezionato e ribadito: ...che nesciune vada fore senza licenza e che non debbiano annottare fore, et secci pernottassero che debbiano fare la quarantana e cosi ancora quella gente che alloggiano fore alli Casali con la famiglia selli facciano ordine che debbiano revenire tutti dentro la terra pero quelli tali che ci anno le robbe cenne debbia restare uno solo per la notte accio non selli faccia danno e che ogni sera se debbia fare la revista della gente dove se trovano accio se sappia dove vanno… (del. 29.10.’656). Il picco era stato superato nel 1658, ma il male ebbe molti strascichi in cui furono coinvolti gli stessi cerusici. Tanto per finire la carrellata cocullese: …noi ne trovame in gran necessita quale stiame senza medico e senza Chirurgo, et l’Università ci sonne molti ammalati…
Per quanto riguarda la nostra zona, le cronache tramandano che l’epidemia si abbatté pesantemente sui paesi rivieraschi del Fucino e su quelli limitrofi nel 1656, ma già dalla metà del ‘600 nella capitale del nostro regno, Napoli dal cui porto pare si fosse diffuso il batterio infettando tutta la città, si era parlato di morti sospette. Pure l’anno scorso si parlò di una forma strana di polmonite, ma nessuno inizialmente parlò di peste, come se le pestilenze si potessero debellare per decreto. Eppure dovremmo ricordare che esse, come tutte le calamità che non si possono scongiurare, covano sempre e diventano più virulente quando qualcuno trascura troppo le misure più elementari onde condurre una vita normale e civile, e allora quelle sfruttano una semplice influenza svegliandosi quando meno te lo aspetti. Da uomo della strada io penso che nella nostra carcassa quell’influenza spesso letale aggredisca le difese (perciò stiano attenti anche i bambini) e sprigioni tutti i batteri, i quali reagiscono poi agli stimoli in luoghi diversi, in maniera diversa e in tempi diversi. E allora calma, calma e prudenza. Comunemente si diceva “calma e geso”! Non è la fine del mondo; non certo quella del mondo fisico, il quale si trascinerà ancora chissà per quanti millenni grazie alle pezze dell’ingegneria farmacologica (la quale alla fine potrebbe scoprire un vaccino pure per lui), bensì quella provocata dalle gravi epidemie che quanto più si prolungano tanto più lasciano una lunga scia di inversione dei valori (inversione già in stato di avanzata progressione). Calma e cervello! Lo scrisse implicitamente il poeta latino Lucrezio ventun secoli addietro descrivendo poeticamente la peste che aveva imperversato sulla Grecia, quattrocento anni prima, con l’invocazione alla dea Venere: aiutaci e nel contempo allontana da noi ogni preoccupazione per dare spazio alla saggezza che ci porta alla ragione. Perciò niente panico, ma niente incoscienza. Solo così si può ragionare.
Quando gli eroi muoiono sul campo di battaglia non cadono intubati: e niente sicumera!