Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#13 - 14/11/2020

Fasto e Umiltà
(Un prezioso reperto: il Trigramma)

Lo sfarzo caratterizzò i castellani che nella stagione fredda andavano a svernare nei loro lussuosi palazzi metropolitani e che dopo la siesta si pavoneggiavano sulle carrozze o uscivano a piedi e accoppiati nella pittoresca cornice delle parrucche e delle piume opacizzata dalla nuvola maleodorante del miscuglio di cipria e spezie delle dame. Uscivano da quella nube soltanto gli strascichi delle lunghe vesti: lo “struscio”. Alfonso Piccolomini II, il nonno dell’ultima contessa di Celano, incurante delle difficoltà economiche in cui già versava il casato (ma secondo l’uso dei nobili non bisognava nascondere quelle difficoltà ostentando lo sfarzo), nel settembre 1549 avrebbe preso in subaffitto addirittura la villa della Farnesina pagando un canone molto alto per le feste e i ricevimenti. Onde far fronte alla spesa cedette Cocullo ad un signore napoletano, Pirro del Pezzo, per milleduecento scudi (però il castello fu subito riscattato dai suoi abitanti a favore di Alfonso (Vedi nota 1, in fondo al testo), il quale, sei giorni prima, aveva dichiarato solennemente che non lo avrebbe venduto). Non credo che queste esibizioni fossero state così appariscenti anche sotto la precedente signoria dei Berardi-Ruggeri, quando i feudatari, erano più distratti dalle manovre politiche da seguire nella magari malcelata (ma a volte compiaciuta) tolleranza verso gli orientamenti dei sovrani di turno; quando essi soprattutto erano ossequienti ai pontefici in quanto tutti, dai re ai terrazzani, respiravano un’atmosfera permeata di intensa religiosità, la quale voleva moltissimi castellani occupati per essere munifici nei confronti della Chiesa con l’erezione di edifici sacri. E’ il caso della più longeva dinastia della contea di Celano.

A Cocullo, in una delle abitazioni sorte su quello che fu il castello da noi impropriamente definito dei Piccolomini (il maniero, restaurato nel 1585, come incisero su una targa apposta su un muro di cinta le maestranze: oltre al restauro, i nuovi feudatari dovettero solo ampliarne l’estensione) durante la ristrutturazione conseguente al terremoto del 2009 è affiorato un architrave su cui è scolpito il trigramma (nel nostro caso monogramma, che peraltro raffigura lo stesso simbolo religioso). Penso che quando i Piccolomini restaurarono il castello i simboli dei Berardi furono rispettati o reincastonati nelle nuove strutture (vedi lo stemma gentilizio alla base della torre nonché forse la torre stessa (2) e sulla facciata della distrutta cappella signorile, divenuta poi la ora distrutta chiesa di San Nicola; addirittura quell’arma araldica fa bella mostra di sé pure nella fonte medioevale). Sulla dinastia dei Berardi-Ruggeri si potrebbe incentrare la ricerca; però la stessa potrebbe riflettersi (e marcatamente) su quella successiva dei Piccolomini.

Ora facciamo un brevissimo excursus sugli accadimenti profani (che riguardano la nostra contea) dal XII al XVI secolo e sulla rievocazione di episodi religiosi, con il protagonismo di tre santi, onde dar voce al muto (?) monolite affiorato durante il restauro. Dopo l’infelice avventura che ebbe sui Piani Palentini nel 1268 Corradino, gli Svevi dovettero cedere il posto agli Angioini e i feudatari ne seguirono le sorti rispettive: conseguentemente quei Berardi che (pur essendo un po’ tutti nascostamente filoangioini) avevano tollerato il dominio svevo furono allontanati dai loro feudi o dalle capitali degli stessi. Tuttavia sembra che nel 1270 fosse titolare nella Valle Subequana Tommaso che lì avrebbe ricevuto una visita di San Francesco. Il conte Tommaso si era ribellato all’imperatore Federico II, il quale si vendicò con la distruzione di Celano nel 1223 e con l’esilio degli abitanti in Sicilia. Dopo due anni San Francesco era già sull’area destinata ad accogliere il nuovo abitato (che Federico avrebbe appellato Cesarea; ma solo fino a quando, tornati i Berardi, Ruggerone gli avrebbe restituito il vecchio nome) per scegliere gli spazi ove erigere edifici sacri. Solo alla morte dell’imperatore (1250) nel 1254 poté reinsediarsi Tommaso, a cui successe il figlio Ruggero II (Ruggerone ?), il quale nel 1256 costruì la chiesa celanese di San Francesco. In genere la dinastia dei Berardi era stata sempre vicina alla Chiesa, a cominciare dal Berardo che fu vescovo di Ostia e poi cardinale dopo essere stato “oblato” dai nobili genitori, monaco a Montecassino, quasi cent’anni dopo la morte del nostro San Domenico, e che noi conosciamo bene per aver egli iniziato la “Cronaca del monastero cassinese”.

In Abruzzo si era diffuso il culto di San Francesco sin dal secolo XII, soprattutto in virtù della fervente vocazione missionaria, accoppiata alla vicinanza ai poveri, del fondatore dell’Ordine, il quale era sceso a Celano anche al tempo della distruzione messa in atto dall’imperatore per la ribellione di Tommaso.

San Francesco nacque nel 1181 e morì nel 1226. Volle essere umile tra gli umili: per questo definì minores i seguaci congregati nel suo Ordine. Solo essendo umili si può comunicare con Dio: volle inculcare a tutti questo principio nell’incessante attività missionaria. Questo fervore lo portò anche in Abruzzo per predicare ai derelitti e nel contempo trovare spazio per far erigere conventi all’Ordine. Qualche anno prima del 1200 sarebbe stato a San Benedetto dei Marsi, sede di Diocesi, e dopo una decina d’anni a Pescina e Celano. Ma il Santo sarebbe già venuto a visitare i conti di Celano e poi si era recato a Gagliano Aterno per salutare il conte Tommaso: questi forse era stato “epurato” dagli Angioini dopo la recente battaglia di Tagliacozzo (1268). Prima di morire S. Giovanni chiese che i suoi beni, consistenti in libri e manoscritti, fossero riportati a Capestrano: il desiderio fu esaudito e quei beni furono portati in una biblioteca fatta preparare appositamente dalla contessa Icobella da Celano.

Fra i seguaci del Santo di Assisi più noti in Abruzzo annovero San Bernardino da Siena e San Giovanni di Capestrano. Il primo (1380-1444) si trovava in Piemonte nel 1408 e andò ad ascoltare San Vincenzo Ferreri (di cui a Cocullo si conserva una reliquia): concretizzò l’umiltà del Fondatore simboleggiando nel trigramma il nome di Gesù. Il trigramma raffigura un sole scolpito sulla tavoletta nella raggiera (apostoli) e con al centro la scritta JHS, che è, diciamo, un acronimo parziale (indica solo le prime tre lettere del nome di Gesù). Questo nome si traduce IESus Hominum Salvator=Gesù degli Uomini Salvatore. A volte nel simbolo compare solo un H sormontato dalla Croce, che sintetizza ulteriormente il trigramma, e allora diventa il Cristogramma molto usato nel Medioevo per indicare il posto dove avevano predicato San Bernardino e i suoi seguaci. Nelle prediche il Santo senese sottolineò la necessità di rinnovare la Chiesa e la società riportandole all’umiltà francescana, mentre esibiva le sue “tavolette” con il simbolo di Cristo. Proprio il trigramma con l’immaginetta (apparentemente misteriosa) parve un segno di eresia all’Inquisizione che nel 1427 processò il Santo; ma San Bernardino fu assolto grazie anche all’intervento dell’amico San Giovanni di Capestrano. Poi quello riprese l’attività missionaria e dai signori della sua città (di cui saranno originari i Piccolomini) fu pregato di continuare i suoi viaggi pure da vecchio. Scese in Abruzzo e morì a L’Aquila.

San Giovanni di Capestrano (1386-1456) nacque da un barone tedesco, venuto in Abruzzo con Luigi duca d’Angiò, e da una signora capestranese di cognome d’Amico. Prima di divenir santo fu valido ed autorevole diplomatico nella corte pontificia, da cui, sollecitato dal papa, si allontanò per esortare i sovrani cristiani a fermare la minaccia turca: poi partecipò lui stesso alla crociata accanto ai soldati, da cui fu contagiato in una pestilenza e per questo morì in Ungheria.

Dopo la confusione seguita alla morte di Federico II, la situazione nella contea appare un po’ più chiara (ma non abbastanza, per gli attriti famigliari e l’ingerenza più pressante dei papi) fra la metà e la fine del 1300, epoca che ora interessa maggiormente.
Non so quando sia nato Ruggero II, che fu amico di Urbano V e morì nel 1387. Forse già da lui l’attenzione dei Berardi cominciò ad essere maggiore verso est. Gli successe il figlio Pietro (il quale inizierà a costruire il castello nuovo a Celano, spostò la Diocesi dei Marsi a Pescina e incrementò il prestigio dei Celestini). Pietro generò Nicola (Cola). Questi nacque nel 1400 (e sarebbe vissuto fino al 1428), ma nel 1418 subentrò il figlio Pietro, il quale però forse resse il feudo solo fino al 1422 (probabilmente si era intromesso il papa facendo assegnare la contea al nipote Odoardo) finché passò al contado di Sora, anche perché intanto l’attenzione di quei signori era attirata pure verso il Liri. Da Pietro fu firmata la pergamena datata 1420 conservata nel Municipio di Cocullo; inoltre dallo stesso forse sarebbe stata progettata per la prima volta la chiesa romana di Sant’Andrea della Valle. Egli cominciò a costruire il castello di Celano e vari edifici religiosi fra cui un convento celanese di San Francesco.

Quando Odoardo Colonna divenne conte di Celano Cobella, che sarebbe dovuta succedere a Nicola come primogenita, in sostanza restò contessa in quanto sposò i suoi pretendenti insediati nella contea e quindi non si curò della titolarità di essa: prima il detto Odoardo, poi Iacopo Caldora che incrementò i pascoli in Abruzzo, poi Lionello Acclozamora che andò a risiedere spesso a Gagliano; però beneficiò pure lui i Celestini di Celano e fu amico di San Giovanni di Capestrano, a cui costruì il convento dei Riformati. Pare che la sola chiesa di Valleverde poi sia stata fatta nel 1464 da Maria Piccolomini duchessa di Amalfi e prima contessa Piccolomini di Celano, mentre il vicino convento era stato fatto da Lionello, poi morto nel ‘460. Il figlio di questi, il Ruggerotto che aveva avuto da Icobella, combatté contro gli Aragonesi ed anche contro la madre, che fu rinchiusa a Gagliano perché quella voleva impedire che si mandassero soldi al Piccinino, amico di Ruggerotto, per combattere i Sulmonesi fedeli agli Aragona. Con l’avvento dei Piccolomini Icobella fu liberata e creata contessa di Venafro, mentre il figlio era stato allontanato e seguitava a combattere gli Aragonesi; fino a quando nel 1495 lo uccise a Pratola un Alfonso Piccolomini. Con Ruggerotto si chiude la dinastia dei Berardi-Ruggeri, sulla quale si potrebbe focalizzare la nostra attenzione, anche se la stessa potrebbe riflettersi (e marcatamente) su quella successiva dei Piccolomini.

Ora è giunto il momento di fare un piccolo riepilogo-promemoria affinché io possa chiedere ai lettori di aiutarmi a risolvere questo problema: per conto di chi fu scolpito il trigramma? E perché?
- San Francesco predicò nelle nostre terre: risulta già da San Bonaventura che andò più volte a Celano (è documentato lo spirito religioso dei conti Berardi-Ruggeri); si discute sul fatto che sia stato Pescina e a San Bendetto dei Marsi: Cocullo è vicinissimo a questi paesi.
- San Bernardino inventò il trigramma, che spesso nel Medioevo fu sintetizzato nel Cristogramma, il quale poi fu apposto sui luoghi in cui avevano predicato San Bernardino e i suoi seguaci. Inoltre S. Bernardino e S. Giovanni di Capestrano furono amici.
- La continuità del rispetto verso la religione BerardiRuggeri-Piccolomini (v. chiesa romana di S. Andrea della Valle).
- Prossimità di Gagliano Aterno a Capestrano.
- Funzione religiosa della transumanza (controllare l’analogia fra il Cristogramma di Cocullo e quello raffigurato sul gonfalone di una Confraternita di Taranto: Caldora?).
- La biblioteca dove conservare l’eredità (i libri) di Sa Francesco fatta predisporre da Icobella.
- Lionello Acclozamora (terzo marito di Icobella e padre di Ruggerotto) fu amico di San Giovanni di Capestrano.
AIUTO!!!

Note
(1) Però questi dovette dare in pegno ai sudditi la riscossione delle rendite dei terreni di Santa Maria in Campo fino a quando avesse restituito la somma.
(2) Nel XVI secolo in genere le torri quadrate (come quella del nostro paese) caddero in disuso per far posto alle torri cilindriche, più sicure per deviare le palle dei cannoni. Però se il maschio servì per breve tempo a Costanza Piccolomini, non valeva la pena erigere una nuova struttura.

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