Pensieri in Libertà di un Ottuagenario

di Nino Chiocchio

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#7 - 15/10/2020

Banditismo a Cocullo
(inquadrato in una piccola cornice storica)

Esula dal banditismo, ma assume grande rilievo nella cornice storica locale, un accadimento importantissimo che val la pena ricordare e che, oltre tutto, comporta la citazione di date molto distanti fra loro.
E’ ormai acclarato che nel ‘600 il primo giovedì di maggio, fino alla seconda metà del ‘700 (1781-82?), era dedicato dalla Chiesa alla Madonna delle Grazie: lo attestano molte delibere dell’antico “Libro de Conseglio” ed altri documenti conservati nell’Archivio Comunale; contemporaneamente in un’osteria si svolgeva un’altra cerimonia, del tutto profana e in stridente contrasto con quella religiosa. Nel 1781 un Cocullese (il clero? Allora era ancora vivo l’Arciprete Don Crescenzo Arcieri) scrisse al re chiedendo di far chiudere l’osteria antichissimamente edificata vicino la piazzetta di S.Domenico... perché in essa si pratticano funzioni scandalose contro il decoro della religione in danno della chiesa di S.Domenico. Un non meglio identificato Michele aveva scritto a Melchiorre Delfico: Parlando, fra gli altri giorni sono, con uno che qui passa per assennato, mi disse, che dovendosi fare a Cocullo una certa processione, che ricorre ogni due o tre anni più presto o più tardi, secondo il piacere del Arciprete, ed in essa andando ognuno ben provveduto di Serpi, d’ogni sorta, che depongono poi nella chiesa, senza che offendino alcuno... Nel 1824 la Congregazione dei Riti concesse la duplicazione a maggio della Festa di S. Domenico, ma la subordinò all’abolizione dell’uso di trasferire la solennità esterna (Vedi nota 1, in fondo al testo) al primo giovedì festivo del mese di maggio. Poi quel giorno fu dedicato a San Domenico (evidentemente il rito profano erano stato abolito) e la cerimonia in onore della Madonna fu spostata al giorno precedente.

Quello del brigantaggio è un marchio indelebile impresso sin nella società primitiva, lo è in quella presente e lo sarà in quella che verrà. Briganti sono coloro che si distinguono per la commissione di delitti. Nel Medioevo quelli furono confusi con i banditi perché si considerò delitto pure la dissidenza di idee dai detentori del potere dominante e i portatori di quelle idee furono “banditi”, cioè messi al “bando”, mandati in esilio. L’ambigua terminologia riemerge sempre nei rivolgimenti politici, sicché dopo l’invasione francese del ‘799 e la successiva irruzione dei piemontesi, i legittimisti, e non solo a Cocullo, furono definiti banditi. La breve premessa introduce la riflessione sul fatto che almeno in un passato recente a Cocullo, paesino che allora viveva intensamente di agricoltura e pastorizia, vi sono stati più banditi che briganti (Sciarra aveva fatto scorrerie nel ‘600 da queste parti, ma non era cocullese). Il fenomeno del banditismo aveva fermentato nel germe della reazione all’oppressione feudale e si era manifestato larvatamente nell’episodio del duca d’Atri, messo borbonico: nel 1705 egli fece sapere ai massari …che si devono fare (2) li due Soldati per servitio di Sua Maestà Che Dio Guarde e quelli che erano eletti Se lanno Colta e fugiti via (del.13 giugno 1705). Costui chiedeva soldati e gli venivano mandati gli inabili, i quali venivano naturalmente rispediti al mittente; il duca rinnovò la richiesta. Ma quando capì che i massari erano conniventi con i giovani validi mandò un capitano a Cocullo per prelevarli e i nostri amministratori lo zittirono: …essendo venuto il Capitano della Compagnia che volea dieci persone per portarli contra banniti il quale per levare la spesa ebbero 20 carlini e una forma di cacio… (del.8 luglio 1669). (con i Borbone era facile sottrarsi alla leva e quando i massari erano costretti, ottemperavano con il mal di corpo, perché dovevano pagare giovani tolti al lavoro dei campi, o cercavano altre scappatoie: sono tempi che la magior parte si trovano fora di padria. Quando proprio non potevano sottrarsi mandavano un numero ristretto di uomini a sorvegliare il ponte di Anversa, Forca Caruso o il ponte di Bugnara. Nel 1707 crebbe il malumore: durante la parentesi dell’occupazione austriaca (finì al 1734) e furono imposte nuove tasse favorendo l’affermarsi della società borghese, sempre più illuminata, che, imponendosi pian piano ad una feudalità divenuta quasi evanescente (un secolo dopo sarà soppressa), apriva i varchi verso la vicina metropoli romana. Nel 1734 il Regno di Napoli divenne indipendente. Dopo la guerra di successione spagnola il primo re fu Carlo III, figlio di Filippo V di Borbone (imperatore di Spagna) e di Elisabetta Farnese (italiana); fino ad allora c’era stato il vicereame e di esso Napoli era stato tributario. Cocullo, appartenente a quel regno ed ebbe il primo Gonfalone nel 1752: scudo sannitico con figura in maestà di San Domenico da Foligno coronato e benedicente, accanto ad una pianta che forse è “l’olmo di San Domenico” più volte menzionato negli Stati delle Anime di quel periodo; l’attuale gonfalone di Cocullo, però, sarà adottato il 2 giugno 1876, cioè tre lustri dopo la nascita dello Stato italiano e sei anni dopo la presa di Roma: “colonna scanalata intesa come il termine cocullese degli antichi Marsi, ginestra intesa come pianta con cui gli antichi romani intessevano le corone al Dio Termine, serpe che allude a quell’antica favola della maga marsicana Angizia – incantatrice di serpenti – favola convertita oggi in verità di fatto mediante il Santo che vi ha in Cocullo” (3). Nel 1763/4 ci fu una terribile carestia e Sulmona insorse per fame; quando la città peligna sembrava che si potesse sfamare con un centinaio di some di grano della marchesa di Pescina, i cittadini e le confraternite della zona si opposero al progetto perché anch’essi erano “in istato di perir per fame”.

La confraternita di S. Domenico ebbe il riconoscimento del re nel 1792 e la duplicazione della Festa nel 1824. La festa di S. Antonio si era celebrata sicuramente fino al 1788.
Alla fine del ‘700 Napoleone provocò l’imminente scompiglio pure nei paesi abituati a respirare in un clima di calma georgica con l’acuirsi di discordie e rancori. Per frenare l’aggressione nel dicembre 1798 Ferdinando IV, re di Napoli, lanciò ai sudditi abruzzesi un proclama in cui esaltava il loro valore e li chiamava a difesa del Trono. Il proclama fu raccolto, fra gli altri, dal marchese di Pescara e dal barone di Roccacasale, don Giuseppe Maria de Sanctis, antenato dei de Sanctis di Cocullo; i due titolati, insieme, cercarono di fermare la marea dell’esercito francese proveniente dal Teramano, ma inutilmente. Ritiratosi verso il suo castello, don Giuseppe Maria incontrò il capo-massa Pronio e riprese la resistenza con le forze che gli restavano e con quelle dell’introdacquese fermando i Francesi per pochi giorni; dopo questi dilagarono verso il suo castello. Che era difeso dal cugino di Giuseppe, don Giambattista, il cui padre Francescantonio e il cui zio Giampietro avevano sposato rispettivamente Francesca e Rosaria Marchione, due sorelle benestanti cocullesi; purtroppo, dopo un inutile tentativo, i difensori furono sopraffatti dai Francesi, i quali nel marzo 1799 presero e incendiarono il castello. Giambattista, ferito gravemente, fu trasportato a Cocullo dal figlio Gioacchino. Un mese prima (febbraio 1799) il cardinal Fabrizio Ruffo era sbarcato in Calabria con pochi uomini per organizzare la resistenza sanfedista. A Cocullo i primi seguaci furono l’arciprete Don Giovanni Arcieri ed il vecchio “Dottor Fisico” don Leonardo Gentile: il primo ricevette Pronio in casa, espose i ritratti dei reali nella chiesa di San Domenico, fece suonare le campane a martello all’arrivo dei Francesi, esortando i paesani ad arruolarsi nelle masse di Pronio; il secondo girò per il paese onde incitare i giovani all’arruolamento nelle masse mentre suo figlio Fortunato combatteva con Pronio sull’Adriatico. Fu allora che alcuni Cocullesi diventarono “briganti” pur essendo semplici legittimisti. Nel 1802 i dintorni di Cocullo erano infestati dalla banda di Giuseppe Gatti: il paese era e fu sempre sul passaggio obbligato dalla Valle Peligna alla Marsica e poi allo Stato Pontificio per i briganti in cerca di rifugio. La felice incursione, a Napoli, di Ruffo e i successi delle potenze europee contro la Francia avevano causato la caduta della Repubblica Partenopea e la ritirata dell’esercito francese. Dopo l’inevitabile sfondamento di Napoleone l’anarchia (creata dalla confusione tra l’obbedienza alle norme napoleoniche –liberali- e l’obbedienza a quelle borboniche) durò per quasi un lustro; poi, agli inizi del 1806, il re fuggì nuovamente e a Napoli tornarono i Francesi: a marzo s’installò sul trono delle Due Sicilie Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, sostituito due anni dopo da Gioacchino Murat, cognato dello stesso. Ma chi governava erano i transalpini attraverso governi prima filoinglese e poi, soprattutto, filofrancese: a quel tempo risale il “Libro in dove si scrivono le scritture attenenti all’Università di Cocullo composto di carta col bollo in esecuzione de venerati reali ordini eseguiti dagli attuali publici rappresentanti della medesima” (queste pagine han tutta l’aria di sostituire il vecchio “Libro de Conseglio” e il “Libro delle Obligazioni”). I nuovi regnanti imposero le nuove leggi: l’8 agosto 1806 fu abolita la feudalità e nel contempo furono introdotte altre tasse nonché la coscrizione obbligatoria (due uomini ogni mille abitanti). Il malcontento aumentò ulteriormente e pure quelli che prima erano “galantuomini” alimentarono il banditismo. Ermenegildo Piccioli, di Navelli (era parente della Teresia Piccioli che nel 1744 era venuta sposa a Cocullo?), rampollo di buona famiglia e già impegnato contro i Francesi nel ‘789 perché fedele a Ferdinando IV, si accampò con la sua massa sul Sirente e qui fu raggiunto dal frate sanfedista Domizio Jacobucci, di Aielli. Il 29 settembre 1806 i banditi invasero Cocullo, lo misero a sacco, poi puntarono su Villalago e Scanno; quindi tornarono verso Cocullo, ma questa volta i locali, dopo aver ucciso l’individuo che li aveva preceduti con le solite richieste di uomini e di vettovaglie, li assalirono e li misero in fuga. L’8 marzo 1807 Domenico Gentile fu arrestato dalle autorità e dall’arciprete don Giovanni (quello dei ritratti sull’altare): egli era definito “un Brigante del 1799, uomo violento e facinoroso, ossia Reo di vie di fatto, e fondatamente sospetto degli altri delitti maggiori ond’è prevenuto”. Ormai il brigantaggio si stava disorganizzando con la perdita della componente politica (questa si estinguerà verso il 1870). Dopo la disfatta di Napoleone e la caduta di Gioacchino Murat arrivarono gli Austriaci e tornò Ferdinando e i banditi non diminuirono di numero pur se con casacca diversa. Caduto Napoleone, ritornarono i Borbone: la Restaurazione. Seguì la carestia che si abbatté nel biennio 1816/17.

Il 12 giugno 1804 era stato emanato in Francia un provvedimento, definito di “Polizia medica”, promulgato in Italia il 5 settembre successivo: l’editto di Saint-Cloud, che richiamava precedenti disposizioni del governo austriaco e che fu pubblicato sul ”Giornale Italiano” del 3 ottobre. Esso stabiliva che i cadaveri dei cittadini di qualunque classe dovevano essere sepolti in cimiteri pubblici, fuori delle città e in fosse anonime; eventuali lapidi (con epitaffi da sottoporre al controllo dei magistrati locali) potevano essere addossate ai muri di cinta dei cimiteri: quindi non indicavano i singoli sepolcri. Foscolo compose un carme sublime contro la rivoluzionaria misura che il tirannico regime di Napoleone imponeva. I Cocullesi scavarono un paio di miseri avelli alle falde del Curro dopo tredici anni. Intanto il borbonico Don Emidio, in dispregio delle leggi francesi, temporeggiava e inviava ai superiori petizioni che tendevano a richiamare i sistemi passati: Eccellenza. Il Sacerdote Emidio Gentile (4) le rappresenta che, giusta le recentissime disposizioni dell’E.V., di poter seppellire i cadaveri de trapassati nelle chiese dell’abitato. In questo Comune, vi sono tre Chiese con tredici seppolcri, i quali sono sufficienti a fare l’altarnativa per tutto l’anno, atteso la scarsa popolazione di 1300 anime, la buona salute che si gode, in guisa che passano dei mesi che non perisce alcuno. Per questo, e l’altra ragione che l’oratore à la sua sepoltura gentilizia chiamata de’ Mascioli (5) Meno di un mese dopo l’Intendente autorizzò Don Emidio a seguire la procedura desiderata: Anche qui in Aquila coloro, che sono nel predetto caso non sono tenuti a seguire l’ordine progressivo sepoltuario… (ASA). Invece il 6 ottobre ‘839, in pieno clima di Restaurazione, Don Valentino Renzi (carbonaro) benedì gli avelli del Curro; malgrado che nove anni prima in Comune fosse stata adottata una risoluzione intitolata “Locale scelto pel Camposanto- Spesa occorsa per la chiusura delle sepolture,- Perizia del Capo Mastro fabbricatore Michele Mascioli”. Continuava la confusione. Il 15 ottobre 1817 l’autorità provinciale aveva ricevuto una lettera anonima, spedita da Sulmona, contro un tal Giovanni Risio: Fra le altre disgrazie che affliggono questa nostra popolazione ci tocca soffrire un boja per Chirurgo, che ci và scorticando, volendo servirci per forza, ed essere pagato a suo capriccio e prepotentemente anche a mano armata; e per timore di non esser ammazzati ci bisogna star quieti senza parlare. Questo tal Chirurgo per nome Giovanni Risio non ha mai studiato tal professione. Appena distrutta l’armata Napolitana si credé in salvo dalle persecuzioni, e trovatosi a Roma si fece imparare a cavar sangue da qualche imperito, e se ne tornò in patria, dandosi tuono di gran Chirurgo, e Medico sperimentatissimo, senza sapere né leggere, né scrivere: e pure spedisce le ricette sopra delle quali i speziali di Solmona, dove si mandano a spedire, prendono argomento di grandi rise. Costui oltre che si fa temere da per se tiene diversi altri fratelli facinorosi, i quali ammazzerebbero un uomo per una pubrica; Ragio per cui ricorriamo alla V.S. Illustrissima, acciò si liberi da queste vessazioni (ASA).Nel 1808, con l’arrivo di re Murat, i Cocullesi avevano riepilogato i beni dell’università: ...due forni, due osterie, una Panatica, un Mulino, prati e Quarti, 265 tassati per animali vaccini, 169 giumentine e Muline, 174 Somari, 2747 Pecorini e Caprini, un medico, un Chirurgo, i Guardiani della campagna, un Maestro di Scuola, un moderatore di Orologio, un Esattore. Dall’anno prima si viveva in un’atmosfera che sembrava più serena, permeata da una legalità più evoluta di quando Giampaolo Gentile e Don Giovanni Arcieri avevano arrestato Domenico Gentile, il “Brigante del 1799”, un legittimista definito bandito perché aveva aderito alla massa di Piccioli e quindi era fedele al re. Già dal 1802 il Borbone regnava a Napoli, ma chi governava erano i transalpini attraverso governi prima filoinglese e poi, soprattutto, filofrancese: a quel tempo risale il “Libro in dove si scrivono le scritture attenenti all’Università di Cocullo composto di carta col bollo in esecuzione de venerati reali ordini eseguiti dagli attuali publici rappresentanti della medesima” (queste pagine han tutta l’aria di sostituire il vecchio “Libro de Conseglio” e il “Libro delle Obligazioni”).

Nel 1822 alla maestra Clementina G. era stato rifiutato lo stipendio perché figlia di Evangelista Gentile, persona invisa in quel Comune (ASA). Clementina era anche sorella del famoso Giambattista (che qualche anno prima, per motivi di donne, aveva litigato seriamente con un coetaneo, e che si apprestava a scalare la gerarchia nell’Ordine Cappuccino, prima di diventare predicatore di Corte, e che poi, gettato l’abito monacale, sarebbe stato arrestato e incarcerato a L’Aquila come capo di una “vendita” carbonara) nonché, forse già amica di Domenico Panecaldo (che avrebbe sposato in seconde nozze otto anni dopo soppiantando Angela Dea de Santis, e che con Domenico avrebbe generato quel Giustino che nel 1854 morì ventitreenne nel Bagno penale di Ponza). Clementina Gentile (6) era nipote di quel Parroco , Donna che sin dalle fasce incominciò a puzzare Figlia di Padre e Fratelli di cattivissimo odore: sposata mesi addietro con un tal Domenico Panecaldo altrimenti Pane Sprecato. Lei non sa far niente, neanche la calzetta (ASA).

Frequente era la costruzione, negli anni 1860/70, anche sulle nostre montagne, di rudimentali fortini (i blockhaus) costruiti per ospitare piccoli presidî destinati a combattere il banditismo: deliberazione comunale del 25 novembre 1866, recante il titolo “Sul capannone in Campo Castimo a blo-Causa”: proposta sulla costruzione di un minuscolo fortilizio fra Cocullo e Ortona in luogo detto Campo Castimo … a parti uguali, al confine tra Cocullo e Ortona, o dove meglio si crederà utile per esterpare il brigantaggio (ACC). Poi le espropriazioni: del. 18 novembre 1866. Domanda per la casa che i frati Minori riformati di Raiano posseggono in questo Comune per addirla ad uso della Scuola delle Fanciulle. a maestra dei Lavori donneschi per le fanciulle, Con la Legge del 7 Luglio 1866, e correlativo regolamento in data del 21 Luglio detto il Real Governo sopprimeva le Corporazioni Religiose e con l’Art.20 di detta legge e 30 del Regolamento dava facoltà ai Comuni di domandare i fabbricati di detti Conventi soppressi, qualora il Comune si fosse trovato nel bisogno di addirli a pubblica utilità, e segnatamente all’insegnamento. I Minori riformati del Comune di Raiano posseggono in questo Comune una casa di un solo membro sufficientemente spaziosa nel locale della Via Porta Ruggieri, che è quasi al centro del Comune, la quale sarebbe sufficientemente adatta alla scuola dei Lavori donneschi…

La calma fu riportata dagli artigiani: il 10 ottobre 1824 cinquanta di loro si riunirono nella casa del falegname/ebanista Giuseppe Panecaldo (suo lo scomparso finestrone della facciata dell’ultima chiesa di San Domenico), di stirpe borbonica, figlio del Giustino morto nel penitenziario di Ponza nonché padre del Giustino scalpellino a Cocullo (lavorò nella chiesa della Madonna delle Grazie all’altare di S. Rocco) e richiesto in città come Roma, dove era emigrato e si era sposato. Quegli artigiani fondarono il “Fascio delle forze operaie”, del cui Statuto riporto i primi due articoli (su trentasette): “Art.1- Oggi quattro Ottobre 1884, nella casa del Signor Giuseppe Panecaldo, sita nel Comune di Cocullo, Strada Sopra la Fontana, N°183 cinquanta liberi cittadini di detto Comune, e dotati di tutti requisiti voluti dal presente Statuto, in nome d’Italia, dell’Umanità e del Progresso, ed in forza dell’art. 32 dello Statuto fondamentale del Regno, si uniscono in società pigliando il nome anzidetto..
Art.2- Scopo di detta Associazione è quello di riunire tutte le diverse forze operaie affine di maggiormente affratellarsi ed accordarsi intorno ai diversi mezzi da tenersi per raggiungere il benessere dei Soci del paese e dell’umanità.”
Il regolamento di esecuzione obbligava, all’articolo due, i soci a “conservare amicizia e amore”. Quello Statuto, che poggiava sui pilastri della pace e della laboriosità, riportò concordia e fece rifiorire il paese. I suoi effetti durarono fino alla seconda guerra mondiale; poi Cocullo cadde, mi si perdoni, nell’anagramma…

Note
(1) Ritengo che la frase “purché nel rispetto della liturgia” condizionante la concessione significhi questo e che ufficializzi la nascita del folclore religioso cocullese.
(2) Eleggere.
(3) Illustrazione fatta dal Sindaco Giuseppe Gentile all’Intendente del nuovo gonfalone.
(4) Costui era figlio di quel don Leonardo che nel ‘799 aveva manifestato la sua fede sanfedista e la cui fedeltà al re era poi stata ripagata con un paio di benefici (leggi “terre”) sequestrati al duca Sforza-Bovadilla.
(5) La madre di Don Emidio era Rosaria Mascioli, moglie di don Leonardo. Il figlio di Giovanni, Domenico, morì poi il 13 settembre 1887 nella Casa di Pena della Giudecca, a Venezia; egli aveva 62 anni, era definito “possidente” e “marito ignorasi di chi”. Da quanto tempo Domenico stava alla Giudecca? E perché stava lì? Le idee politiche del padre lo avevano spinto alla macchia? Peccato che non sia stato trovato l’elenco dei briganti che l’anno prima (1886), secondo le disposizioni e una notizia desunta dagli atti dell’ASA, era conservato nell’Archivio Comunale di Cocullo…
(6) Per via materna Clementina era nipote di due parroci: Don Giuseppe e Don Valentino Renzi, il primo morto nel 1836 e l’altro nel 1850.

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