Chiavi, ladri e telecamere
Fatta eccezione per le pause della seconda guerra mondiale (alla prima non ero ancora nato) e di quella civile che ne seguì (1943/’45), fino alla metà del ‘960 nei piccoli nuclei abitati come Cocullo era diffusa abitudine uscire di casa senza chiudere a chiave, non perché si fosse parchi anche nel risparmio di serrature, ma perché si aveva fiducia nella serietà e nell’efficacia delle istituzioni, quali che fossero, le quali avevano scoraggiato ladri e truffatori e, non intralciati del buonismo pietistico, avevano dettato pene severe. Sicché nonno si avviava, a volte in mia compagnia, verso il pagliaio mentre nonna si avviava verso la fonte con la conca vuota sotto il braccio (ambedue le mete non erano vicine) lasciando la chiave nella toppa dopo aver fermato la porta con l’unico timore che il vento la facesse sbattere. Oggi un’eccessiva libertà (eufemismo) ha favorito il rifiorire delle ruberie in tutte le fasce sociali, e la porta non mostra più la chiave che sporge al di fuori, anzi spesso viene accuratamente chiusa con serratura doppia. Tuttavia questo accorgimento non impedisce ai ladri, sempre più smaliziati, ringalluzziti in mezzo a gente che corre, corre costretta in questi tempi a correre senza meta e senza futuro (beninteso, nelle fasce più deboli abituate a sentir parlare di certi privilegi troppo spesso immeritati e di vitalizi parlamentari, e che vivono in uno Stato pieno di disoccupati, i ladri operano quasi sempre per sfamare le loro famiglie), di sbizzarrirsi quando vogliono e come vogliono. Per rimediare a questo le autorità superiori, evidentemente trascurando sistemi più economici perché forse sono richiesti dalla situazione attuale, hanno ritenuto opportuno finanziare gli enti locali, per l’installazione di telecamere di sorveglianza. E bene ha fatto il Sindaco di Cocullo, che oltre tutto è esperto in materia elettronica, ad approfittare di questo suggerimento; ma, più che per l’iniziativa egli va lodato per la solerte attenzione con cui, mi pare, ha accompagnato i tecnici seguendoli per le vie del paese quasi in solitudine, con l’assenza di addetti al Comune. Questo potrebbe essere un ulteriore indizio che al vertice dell’amministrazione c’è qualcuno che s’interessa del paese: e allora attendiamo fiduciosi che questa occasione sia propedeutica alla soluzione di temi facili come quello della chiesa di San Domenico ed all’impostazione di problemi ardui come la ripopolazione ed il risanamento del territorio affinché in esso si rispecchino le telecamere. Per l’impostazione dei problemi più seri Sandro si potrebbe avvalere dell’esperienza amministrativa (e di amicizie influenti contratte durante quell’esperienza, perché, specialmente oggi, senza conoscere almeno un semplice commesso non si smuove neanche una pratica), di un anziano amministratore.
Certo, quelli di Rua Sant’Antonio sono ruderi; ma quei ruderi parlano e potrebbero attirare l’attenzione di studiosi, turisti e pellegrini di una certa levatura. E, chissà: il ripopolamento di un paesino che ha tante cose da dire, che è accogliente e risanato, chissà che non potrebbe cominciare dalle memorie di Rua Sant’Antonio?
Altro che vecchie carceri, chiedo scusa, “antiche carceri”!