Il mondo favoloso di Matusalemme
Quando ti parlai di qualche episodio vissuto nella mia gioventù e delle usanze di allora capii che eri una creatura sensibile, intelligente: dapprima dal tuo sguardo trasparì qualcosa di vagamente incredulo, ma subito quel “qualcosa” si trasformò chiaramente nel fascino subito durante la narrazione delle cose che avvenivano in quel mondo fantastico. Insomma la tua reazione mi ha confortato: è stata opposta a quella di tanti tuoi compagnucci a cui hanno insegnato che, ammesso che il passato esista, esso significa arretratezza, cosa da trascurare, da ignorare; e i grulli ci hanno creduto, senza sapere che rivivere le cose buone del passato con le sue storie e tradizioni anche leggendarie, significa che si è degni di vivere. Gli abitanti che ignorano la storia del paese in cui sono nati, e quindi il loro passato, segnano irrimediabilmente la fine della terra dove furono cullati.
Io sono vecchio, ma non al punto che possa pensare di essere sopravvissuto alle calamità del Medioevo per venire ad affogare nella schiuma di un mondo ammantato da un’immensa palude coperta di ortiche. Allora le scuole non erano organizzate come ai tempi miei quando gli studenti, grandi e piccoli, dopo aver ripassato le lezioni si distraevano stimolando la fantasia e inventandosi i giochi che li soddisfacevano con poco (palle di pezza anziché palloni, dispettucci, sfide atletiche, ecc.); ma, ripeto, dopo avere studiato (allora esisteva la Scuola e non il solo Ministro della scuola).
Le stagioni si avvicendavano regolarmente: a primavera gli accordi del cuculo della Selva accompagnavano il cinguettio delle cinciallegre e il fluire del rivo Pezzana. Quando il campanone, leggermente lesionato (e questo fu il pretesto per fonderlo), della torre annunciava la Festa di San Domenico correvamo in chiesa a prendere le palme benedette con cui andare incontro ai pellegrini annunciati dai loro canti. D’estate, al tempo della mietitura, pure tuo zio cantava e mieteva: cantava spesso “Vola colomba”, una canzone allora in voga “lanciata” da Nilla Pizzi. In autunno si gustavano i grappoli della vendemmia; d’inverno si gustava il sanguinaccio e, durante la guerra, noi bimbi andavamo a “sciare” con ai piedi due tavolette nelle cui punte avevamo inchiodato ritagli di contenitori cilindrici. E ci divertivamo.
Tanti ricordi rasserenano la mia vecchiaia, anche se si accavallano e la mente talora mi falla; ricordo che pure i vecchi, inconsapevoli educatori che ci facevano sentire saggi come loro, dialogavano con noi e ci tramandavano tradizioni e storielle senza annoiarci: quando capivano che ci dovevamo distrarre, trovavano le scappatoie opportune. Nonna Cassilde portava un tizzone acceso sotto il giornale che nonno Luciano che, tornato dalla campagna, stava leggendo mentre si riscaldava vicino al ciocco; ricordo zia Gloria che alternava il racconto delle vicende della vita ad intermezzi scherzosi e vivaci, poi mi portava al vicino orto per farmi giocare con la sua tartaruga. Erano donne del popolo, ma avevano una “carica” di gran lunga maggiore a quella di tante professoresse (e professori) che non curano la loro preparazione e non tutelano la loro dignità. Ma continuare su questo argomento significherebbe aprire un discorso lungo che coinvolgerebbe tutte le sfaccettature sociali, a cominciare dalle più alte istituzioni di cui oltre tutto non conosco il vocabolario; questo ci poterebbe fuori tema e poi non credo di essere all’altezza di poterlo sostenere adeguatamente.
Ricordo che noi bambini, dopo aver riguardato i compiti, al tramonto ci riunivamo all’ “Aralizza” e alcuni improvvisavano squadre per “fare a pallone”, altri giocavano “a lizza” con bastoni improvvisati; naturalmente non mancavano il classico moscacieca, la “tana”, e lo “schiaffo”. La sera, dopo cena, in piazza completavamo il programma dei giochi con il salto del “marc’aurelio, bel cavallo ecc.” e con il “tre, tre e tre” o giocando a “boca” con i mattoni o a “battimuro”, cioè battendo soldini sulla facciata della chiesa la quale faceva da sponda perché cadessero il più possibile vicino ad un obiettivo terrestre determinato (chi non disponeva di soldi usava i bottoni che si staccava dagli abiti: una volta un amichetto perse tanto che fu costretto a tornare a casa reggendosi i calzoni con la “vrachétta” spalancata).
Come vedi, quello in cui vissi io era un mondo diverso anche per i bambini: più parco, magari più ingenuo e che comunque educava e non costituiva un avviamento al vizio e all’edonismo.