La sfida del 25 Settembre
A mio parere il problema più grosso, in Abruzzo, per i candidati al Parlamento, sarà quello di trovare il modo di riuscire a far votare quel 60% e più di cittadini che, a parere di analisti esperti, tra indecisi e dichiaratamente disinteressati al voto, di fatto condizionerebbero l’esito delle elezioni del 25 settembre.
Non è uno scherzo. (A meno che i sondaggisti che alcune settimane or sono hanno divulgato questi dati, non abbiano letteralmente inventato l’informazione. Ma lo escludo).
Non è uno scherzo, dicevo. Tutti i sondaggi che in Abruzzo come in Italia danno per stravincenti gli aggregati della destra (nell’ordine delle graduatorie: FdI, Lega, F.I. Toti & Lupi, e quanti “altri”, vedremo) rischiano di essere clamorosamente smentiti, nell’ipotesi in cui si dovessero recuperare parte di quel 60% (articolato in un 38,3% di “astensionisti” e 22% di indecisi) di elettorato “fantasma”. E non sarebbe la prima volta che i sondaggi, alla resa dello scrutinio, sarebbero smentiti.
Quest’è l’Italia, e questo è l’Abruzzo. Senza aggiungere che, in applicazione del sistema elettorale, già in maniera normale è stato difficile garantire maggioranze omogenee nelle due Camere e ancora più difficile potrebbe essere garantire l’obiettivo lunedì 26 settembre (specie per effetto della consistente decurtazione dei membri da eleggere a Montecitorio e a Palazzo Madama).
È uno scenario che si prefigura davvero “triste”. Inaffidabile, in relazione al bisogno di stabilità del quadro politico, di cui non solo noi ma l’UE, tutta, necessita. E se a questo si aggiunge la mancanza vera di leadership, il “quadro” si tinge di ombre che non vogliamo nemmeno immaginare.
Chi ci segue sa bene come la pensiamo. Teoricamente avremmo bisogno di una profonda riforma di sistema. Ma questo non significa dare ragione a Giorgia Meloni che ha voluto inserire nel programma dei “suoi” l’ipotesi della repubblica presidenziale (o “semipresidenziale”, alla francese, cioè. Non si comprende bene). Altrettanto urgente sarebbe la revisione del rapporto Stato-Regioni, soprattutto dopo la triste esperienza-Covid che, soprattutto in materia sanitaria ha dimostrato quanto inadeguati siano gli strumenti capaci di garantire la comparabilità e l’uguaglianza della tutela della salute dei cittadini (da Nord a Sud).
Ma questo non giustifica la richiesta di Salvini che, alla sua maniera, promette l’autonomia differenziata di nove regioni a statuto ordinario.
Basterebbero queste due questioni (per ottenere le quali la destra chiede maggioranze autosufficienti alla Camera e al Senato, nel tentativo di evitare gli eventuali referendum confermativi) a terremotare il futuro nazionale e dell’Europa, perché, piaccia o no, in questa congiuntura storica, il ruolo dell’Italia, in Europa è fondamentale (e non grazie alla credibilità degli operatori politici, ma per il ruolo e la presenza, a Palazzo Chigi, fino a luglio scorso, del prof. Mario Draghi che, nel caos condiviso della pandemia, della guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e della conseguente difficoltà di riforma delle politiche ecologiche ed energetiche, ha dato prova di equilibrio, saggezza e chiarezza di visione. È questo, a mio parere, il tema centrale della campagna elettorale).
Ma la politica, si sa (come soleva ripete Aldo Moro), non è quasi mai quella che ci prefiguriamo, ma quella che nasce dalle decisioni che si debbono assumere in presenza delle cose che accadono.
E allora, di presidenzialismo, ovvero di regionalismo differenziato, oggi, non mi sembra proprio il caso di parlare. Non esistono le condizioni culturali e politiche, appunto, perché queste riforme, che rimpasterebbero (e non di poco) la Costituzione vigente, siano un salvagente per gli Italiani. Anzi, forse rischierebbero di determinarne sfaldamento e frantumazione.
Piuttosto. Nell’ipotesi che i sondaggisti dovessero aver ragione e la destra dovesse uscire con maggioranze vere nelle due Camere, come potrebbe Giorgia Meloni (che aspira ad essere Presidente del Consiglio dei Ministri) essere sufficientemente credibile e convincente a livello di UE, visti i suoi legami con i leader dell’ex gruppo di Visegrad, spina del fianco della politica solidaristica ed atlantistica della “maggioranza Ursula” che interpreta, oggi, nonostante tutti i problemi, lo spirito più autentico dell’idea d’Europa che nacque a Ventotene e che proprio in questa difficile congiuntura (crisi di leadership, riemergenti guerre di espansione, bisogno di fonti energetiche rinnovabili e pulite, pace e giustizia sociale) sembra rinascere intorno al blocco storico centro-meridionale del Vecchio Continente?
Berlusconi (vecchia volpe della destra italiana, ma con pochissimi voti, sempre meno, rispetto a Meloni e Salvini) questo lo sa bene. E chi può dire cosa ha in serbo? (Nonostante le battute di qualche settimana fa sulle attenzioni alle riforme costituzionali e alle “dimissioni di Mattarella”. De ché!). Lui sa benissimo che ammesso che si passi dalla propaganda all’approvazione dei disegni di legge, per l’attuazione di una riforma così sostanziale occorrerebbero tempi tecnici necessariamente lunghi. Allora? (Lui le cose le sa tanto bene che, appena averlo detto si è sbracciato a precisare di essere stato frainteso. È una vita che fa così: dice e disdice. Soprattutto, il Cavaliere sa quanto sarebbe difficile, nell’ipotesi di una Presidenza del Consiglio Meloni, presentarsi in Europa con credibilità ed autorevolezza. E, facendo finta di nulla, prende le distanze da un’eventualità del genere, parlando d’altro, raccogliendo i temi “cari” a Meloni, ma dando ad intendere che, eventualmente ci penserebbe “lui” a “fare le carte”; lui che, nonostante tutto, in Europa può parlare ancora; perché è e resta un esponente del PPE!
Che clima, in questa campagna elettorale?
Senza dire delle speranze di Salvini, il quale si accontenterebbe, in questo quadro, di fare la parte residuale…vuole soltanto andare al Viminale. Mentre nella Lega c’è chi aspetta il 26 settembre per dirgli: “grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora basta così, grazie ancora” (soprattutto se i risultati non dovessero essere quelli attesi, soprattutto in Lombardia e nel Veneto (uno e trino!).
Questo per il blocco di destra che è dato stravincente.
Nel blocco di sinistra Enrico Letta pare che le stia pensando tutte, per evitare di disturbare il manovratore.
Infatti non è facile spiegare scelte di alleanze e di candidature. Non soltanto ha di fatto costretto Calenda e Renzi a mettersi insieme, ma ha anche (come dice Renzi) dettate dal rancore scegliendo di non ricandidare alcuni che potrebbero anche andare a dare una mano ai due che così potrebbero tentare di render manifesto l’improbabile: vale a dire la materializzazione di una “terza forza” capace di rendere ancora più instabile un quadro politico già frastagliato e complicato.
E dei 5Stelle, cosa dobbiamo dire? Forse la curiosità più grossa è sapere cosa resterà di quel 32% del 2018. Giusto, “resterà”, a chi? A Conte, che ne è l’erede formale. Di Maio è altra cosa.
Ecco perché, come dicevo all’inizio, la sfida di questo 25 settembre mi sembra molto riconducibile alla caccia degli indecisi ovvero di quelli che prima di ferragosto si erano iscritti al registro degli astensionisti.
Come al solito mi auguro di sbagliare. Perché così non si governerebbe il Paese, tanto meno l’UE.