Parliamo di cose concrete!

di Andrea Iannamorelli

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#52 - 15/02/2021

Dalla pandemia nasceranno novità positive?

Non ho problemi a fare autocritica (se e quando è necessario, come in questo caso).
Il mio (noto) strisciante scetticismo sulla possibilità di cambiamenti derivanti dalla terribile pandemia che ci blocca da un anno e ci terrà più o meno ingessati ancora per un po’ (forse fino all’inizio del prossimo autunno!), al momento, sembra clamorosamente smentito.
Il fallimento del tentativo della classe politica dirigente di risolvere la crisi di Governo di fine gennaio (ma anche la più preoccupante crisi politica che ci accompagna per lo meno dall’inizio del secolo) sembra caratterizzata da cambiamenti fino ad ora insperati.
Come nel 2011, fondamentale è stato il ruolo del Capo dello Stato (Mattarella) che, di fronte al report negativo offerto dall’esplorazione del Presidente della Camera (Fico) per l’eventuale costruzione di un Governo “Conte-ter”, non ha esitato a chiamare al capezzale di Palazzo Chigi, il Prof. Mario Draghi per tentare di dare una soluzione al difficile e pericolosissimo passaggio di questo momento della storia italiana (lo sviluppo drammatico della pandemia e la gestione della terribile crisi economica, sociale ed educativa che la pandemia si porta dietro). E non c’è voluto molto per capire che questa sarebbe stata la soluzione giusta alla crisi che si era aperta dopo il tragitto fatto dall’Avvocato Giuseppe Conte, sia con il primo che con il secondo Governo (politicamente l’uno contraddizione dell’altro); e il valore del cambiamento non si è espresso immediatamente solo per lo schieramento dei gruppi parlamentari in carica (alla Camera ed al Senato, ove tutti, ad eccezione di quello che fa riferimento a Fratelli d’Italia e ad una minoranza dei 5Stelle si son detti pronti all’impegno positivo), ma anche per gli effetti del ruolo dell’Italia nello scacchiere europeo ed internazionale. Sembra infatti che agli occhi di tutti (Stati sovrani europei, extraeuropei e mondo della finanza) l’Italia, oggi, possa riacquistare una forte credibilità.
Insomma che Draghi sia una garanzia per l’Italia, sì, ma anche per il mondo intero, molti lo sapevamo, forse tanti non avevano il coraggio di dirlo chiaramente, certamente non ardivano osare di chiedergli di occuparsi del Governo del suo Paese (quasi fosse un inopportuno fastidio per lui). Invece il professore, di fronte al modo e al contenuto dell’invito di Mattarella (il bisogno di una forte unità del Paese; la gravità e la complessità del momento; l’impossibilità di ricorrere subito alle urne), da buon servitore dello Stato e dell’interesse pubblico (capacità che ha già ampiamente messo in mostra dalla Presidenza della Banca d’Italia e della BCE) ha risposto sì provocando la diffusione di quel sentimento di disponibilità a fare (in positivo) che per molti, rispetto al ruolo svolto nella politica nazionale fino a tutt’oggi, appare un “forte segno di contraddizione”. Bisognerà vedere fino a che punto sincero e soprattutto resistente.
Tuttavia è solo questo “il miracolo”, “il segno del cambiamento”? A me sembra di no. Questo potrebbe essere soltanto l’inizio. (E da qui parte la mia pubblica autocritica).

E’ vero, dopo la pandemia nulla è come prima. Lo hanno detto in tanti da un anno a questa parte: dicevano che sarebbero cambiati i rapporti sociali, il modo di stare insieme, le aggregazioni personali nelle città e nelle periferie (pensate che giorni fa Giuseppe Roma del CENSIS addirittura ha avvertito il bisogno di dire che forse è arrivato il momento di incominciare a ripensare il modo di essere delle grandi aree metropolitane), sarebbe cambiata l’Unione Europea, le gerarchie dei rapporti economici interpersonali e tra gli Stati, sarebbe cambiata la scuola, i rapporti tra genitori e figli, tra tutelati e non, tra interconnessi e non…
In una parola la pandemia ha incominciato ad essere rappresentata come una sciabolata di democrazia che avrebbe ridato senso e ruolo alla competenza esperta (in tutti i campi) sia in relazione alla tutela della salute, sia nel rapporto tra classe politica dirigente e scelte per vivere bene; e questo non soltanto nei Paesi che dopo la seconda guerra mondiale avevano messo da parte la ricerca dei rapporti reciproci e funzionali tra politica e scienza, ma anche nei Paesi che questo rapporto avevano protetto e perseguito.
Ecco, da questa visione, il dopo-pandemia ha evocato immagini da dopo- guerra.
S’è detto infatti che gli anni futuri sarebbero stati molto simili a quelli della ricostruzione al termine della seconda guerra mondiale, in Europa, dove il Piano Marshall, per l’Italia, ma anche per altri Stati, favorì la ripresa economica, strutturale e, quindi, sociale. Oltreché, politica.
Ma si è andati ben oltre. Il Piano Marshall portò infatti in Italia più o meno 1.200.000 dollari. Oggi, entro il prossimo aprile, l’Italia deve presentare in Europa un piano di utilizzazione di più di 200 miliardi di €.
Non è uno scherzo. (Anche perché il Piano Marshall nasceva da un gesto di magnanimità proveniente da uno stato straniero, ancorché alleato; il Recovery fund nasce da un progetto interno di ricostruzione dell’Unione Europea ed è finalizzato a generare le condizioni per le quali, in parte con debiti da restituire, in parte con risorse a fondo perduto punta (con investimenti mirati) a creare le condizioni per la rinascita (Next Generation EU riguarda i nostri figli, meglio i nostri nipoti).
Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; rivoluzione verde e transizione ecologico/energetica; infrastrutture multimediale; inclusione e coesione; salute.
Sono questi i paragrafi più significativi del progetto cui si legano una serie di riforme di sistema che riguardano diversi campi (le eterne, attese riforme di un sistema-Italia, che, nato dagli anni della ricostruzione post bellica, è invecchiato e necessariamente reclama aggiornamenti) dalla giustizia civile alla fiscalità, dal modo di concepire la vita nelle metropoli o nelle periferie alla tutela della salute dei cittadini dovunque ubicati, dai rapporti tra Stato centrale e autonomie locali alla ridefinizione dei poteri di ciascuno, dai sistemi elettorali (certo anche questi) ai modi di decisione negli ambiti di ciascuno (poteri locali e poteri centrali). In capo a tutte le riforme e alla ristrutturazione del Paese, evidentemente, c’è il lavoro: la ridefinizione di un modello di sviluppo al quale si lega una prospettiva di ricrescita dell’occupazione e delle garanzie, per ciascuno, di ricercare ed avere un ruolo per la propria prospettiva di vita.

Non sarà un lavoro né semplice, né veloce. Non senza motivo il planning dettato dal recovery già arriva fino al 2026/27 (del resto, dopo il 1946/47 gli anni della “ricostruzione” non arrivarono a manifestare gli esiti attesi soltanto a metà anni sessanta?).
Quel che ci attende, quindi, sono anni nei quali, con molto senso di realismo, avendo il vantaggio, oggi, rispetto ai padri e ai nonni, che il tasso di ideologizzazione degli schieramenti è calato di molto (anzi è proprio scomparso, o così pare, con tutti gli effetti, anche negativi, se volete), questo Paese ha bisogno (direi a tutti i livelli e per uno come me che è nato ed è cresciuto in un modo di far politica che dava un grossissimo valore alla capacità di governo delle autonomie locali, questo bisogno proprio dalla periferia deve farsi riconoscere, per pretenderlo ai livelli intermedi e nazionali) questo Paese, dicevo, ha bisogno di una classe politica dirigente che non soltanto sia consapevole di questa grande opera di ricostruzione ma sia anche capace di assicurarla, avendo le competenze per svolgere i compiti cui è chiamata. (E con tutto il rispetto, con i necessari ed obbligatori ringraziamenti verso il ruolo dell’avvocato Giuseppe Conte, un eventuale terzo Governo da lui presieduto non poteva dare le assicurazioni attese). Del resto, senza retorica, personalmente sento di poter battezzare il 1°Governo Draghi come “Governo della responsabilità nazionale”.

“Subito una Autority per il recovery italiano”, diceva Romano Prodi in un’intervista su “Il Messaggero” il 14 gennaio scorso, aggiungendo: “La via dell’unità nazionale è prematura: ancora troppi insulti e tensioni”.
E oggi lo scetticismo del Prof. Prodi sembrerebbe smentito (almeno per ora). Certo, a proposito dell’Autority per il recovery, altro che task force o modelli tipo il vecchio CIPE che cinquant’anni fa funzionavano e come!
Ora entrerà in funzione il bazooka Draghi che è in grado (come sembra) di far dire al sovranista Salvini di credere in un’Europa che cambia, fino al punto da ottenere dai suoi, a Bruxelles, di votare contro se stessi, rispetto alla validità del recovery e di rompere, sostanzialmente solidarietà politicamente consolidate (fino a ieri) con ungheresi, olandesi e francesi “le peniani”, ma soprattutto nell’evidente tentativo, primo, di far dimenticare che nel “Conte 1°” propose l’orgoglioso anti-Euro Savona al Tesoro, proposta legittimamente contrastata da Mattarella, con conseguente inutile e risibile tentativo, da parte dei 5Stelle, di avviare un’impossibile procedura di impeachment(!); secondo, di provocare la rottura del centrodestra relegando l’ingombrante presenza di Meloni in minoranza (con Berlusconi il rapporto è diverso, per quel che il Cavaliere rappresenta come quota elettorale e per i rapporti che lui, Salvini, coltiva con chi è rimasto ancora nel suo vecchio entourage, ma soprattutto con l’elettorato lombardo-veneto berlusconiano il quale non avrebbe perdonato al leader della Lega di rimanere ai margini dell’utilizzazione dei miliardi di cui al recovery).
Oppure è in grado di far emergere i contrasti veri tra i gruppi della palude populista del Movimento 5Stelle i quali dopo gli obbligatori “rientri in scena” del Comico garante (che pure da tempo ha detto di non volersi più occupare di queste cose) ricorrendo al contestato “voto sulla piattaforma Rousseau”, con un 59% di sì obbligherà, dovrebbe obbligare, tutti i parlamentari in carica (anche i più riottosi, quanto meno quelli che vogliono mantenersi il seggio parlamentare fino a che durerà) a sostenere questo Governo della “responsabilità” nazionale chiesto dal Quirinale, un Governo per la ripartenza, è stato scritto! Un bazooka che, a differenza del Monti del 2011 non è “tecnico” e basta (15 politici, 8 tecnici di grande fiducia, collaboratori di Draghi), che non nasce per tagliare spese ma che si carica dei bisogni della politica, scegliendo, rappresentandola e facendola riconoscere, nei modi e negli apporti nel Governo per il quale in ciascun Ministero ci sarà certamente un responsabile della gestione delle risorse e dell’attuazione dei programmi del recovery, così come probabilmente medesime deleghe dovranno esserci nelle Regioni e nei Comuni, perché questa sarà l’Autority chiamata a controllare e valutare l’efficacia-efficienza degli obiettivi da perseguire attraverso investimenti epocali. (Del resto, siamo famosi in Europa e nel mondo per l’incapacità, dimostrata finora, di spendere ordinarie risorse dei fondi europei. Ora è il momento di smentire noi stessi).

Tutto facile e tutto fatto? Calma. Non è affatto facile, né è già svolto il compito che Mattarella ha affidato a Draghi. A mio sommesso ma esplicito parere, il tentativo è buono e dovremmo crederci.
Buono perché l’occasione è ghiotta e nasce da premesse che, con gli strumenti a disposizione, potrebbe fare il miracolo di rimettere in moto una macchina produttiva potente che, in un quadro rinnovato di rapporti europei e mondiali, potrebbe generare la rinascita vera di questo Paese ed una rendita significativa per i prossimi decenni. Ma il tentativo lo giudico buono anche per un altro aspetto: un rinnovamento sostanziale del rapporto politico in Italia: la nascita, cioè, di una destra europea che mette ai margini uno spezzone estremista di “sovranismo” anacronistico, ingiustificato ed improduttivo, unitamente alla necessaria chiarezza di una concezione populista della politica che finge di giocare con la democrazia diretta, pretende di accreditarla e legittimarla con manipolazioni mediatiche che rappresentano ben poca cosa rispetto alla volontà popolare vera ed autentica (quella che non si misura nei sondaggi, ma nelle urne e che affonda i responsi nella problematica vera della vita quotidiana di ciascuno).
Infine l’occasione è buona, chissà, forse anche per tentare di dare una risposta convincente alla sfida che qualche mese fa Gramellini, dal Corriere della Sera (lui che “gioca” a cercare le parole…) poneva agli Italiani per questo 2021: tradurre nella nostra lingua, ma con UNA parola, il vocabolo danese samfundssind che, letteralmente, significherebbe “mentalità sociale”, utile a valutare l’impatto delle azioni di ciascuno sulla vita degli altri (e questi lunghi mesi di pandemia hanno ampiamente dimostrato quanto avremmo bisogno di valutare sempre l’impatto che il nostro personale comportamento può avere nei confronti del nostro “altro”). Sarebbe il comune concetto di “senso civico”? Gramellini diceva che è molto di più, innanzitutto perché i danesi per esprimere questo concetto usano una sola parola, noi due, e poi perché “senso civico” saprebbe di sermone.
(Come posso concludere?) Io mi auguro che l’Italia vinca la sfida. Per i nostri figli e nipoti, ripeto, che non possiamo lasciare pieni di debiti ed ignoranti.

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