Parliamo di cose concrete!

di Andrea Iannamorelli

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#45 - 09/11/2020

Una ricorrenza "accantonata" che non va dimenticata

Sta passando il 50enario della nascita delle Regioni e quasi non ce ne siamo accorti. La colpa è del COVID che ha stravolto l’agenda delle cose che contano. E non è una bella notizia, né in relazione al fatto in sé (la dimenticanza), né in relazione alle cause (il Covid, che è qui tra noi; e ci resterà ancora per un bel po’ di tempo, almeno fino a quando non saremo nella condizione di utilizzare un vaccino. Tra parentesi, venerdì pomeriggio ho avuto modo di ascoltare Marsilio in diretta su RAINEWS 24. E’ molto preoccupato per il fatto che l’Abruzzo, da essere stato inserito nella fascia gialla possa esser inserito in zona arancione. Insomma è preoccupato e perplesso per la situazione. Allora è vero quello che in molti scriviamo. Cioè che il sistema non funziona! Ma torniamo a noi.
Il 50enario della nascita delle Regioni sta passando inutilmente, mentre avremmo proprio avuto bisogno di celebrare le “nozze d’oro” con il regionalismo nazionale. Sarebbe stata un’utile occasione per un tagliando di verifica sul funzionamento (evidenziandone i punti di forza e i punti di debolezza) della prima applicazione del Titolo V° della nostra Costituzione (che si riferisce alle funzioni di Regioni, Province e Comuni; malamente ritoccato nel 2001; soprattutto mai dotato dei necessari decreti attuativi). Ma la pandemia non soltanto ci ha costretto ad occuparci di tutto, tranne che di queste (pur importanti e necessarie) riflessioni, ma addirittura ha eclissato (e questo magari è stato un esito positivo) un maldestro tentativo di fuga in avanti che Lombardi, Veneti ed Emiliano-romagnoli, con la richiesta di autonomia differenziata, da tempo hanno tentato. L’ultimo confronto serio con il Governo, su questo tema, risale al 26 settembre 2019. Dopo è successo quello che sta sotto gli occhi di tutti, ancora oggi.
Tuttavia proprio la pandemia in atto ci impone di riconoscere il bisogno che noi cittadini di questo tempo presente abbiamo di partecipare ad un confronto su ciò che va cambiato e ciò che va mantenuto nel sistema delle autonomie vigente.

Quando nel giugno del 1970 andammo a votare per eleggere i primi Consigli regionali a Statuto ordinario, la partecipazione fu quasi plebiscitaria. Votarono più del 93% degli aventi diritto. Cosa che da sola dava la cifra dell’interesse e dell’attenzione dei cittadini italiani all’attuazione di questo dettato costituzionale che dopo ventidue anni vedeva la luce. Ed è inutile sottolineare che via via, nel corso dei decenni, per ragioni diverse (riconducibili sia al progressivo distacco di interesse e di collegamento tra cittadini e luoghi del “palazzo”, che al vorticoso cambiamento del rapporto politico, sociale ed economico tra gli Italiani ovvero tra le condizioni delle regioni medesime) il tasso di credibilità (di interesse e quindi di attenzione) tra cittadini e Regioni sia andato fortemente scemando; fino al punto da manifestarsi, spesso, in forme conflittuali (come tristemente sta avvenendo in questi mesi), non soltanto tra i cittadini e la Regione, ma anche tra le Regioni tra loro e tra queste e lo Stato centrale. Insomma, il modello iniziale, fissato nell’articolato del 1948, attuato già in forte ritardo (dopo 22 anni), revisionato in parte, come ho già ricordato (e in assenza di decreti applicativi su questioni non di secondaria importanza, soprattutto in riferimento ai poteri legislativi esclusivi e/o concorrenti, tra Stato e Regione, ovvero sulla ridefinizione dei compiti assegnati alle Province e ai Comuni nonché una non egualitaria individuazione delle aree metropolitane, unitamente al confuso e ondivago dibattito sul mantenimento o meno proprio delle Province, per esempio), il modello pensato dal “costituente” nel ’48, ottimo per la congiuntura temporale nel quale nacque, a 50anni di distanza certamente non funziona più. E su alcune materie, una per tutte la tutela della salute pubblica, la gestione della sanità, per capirci, proprio questi mesi hanno manifestato il bisogno di un ripensamento, non raffazzonato e limitato (finalizzato insomma ad aggiustar qualcosa) ma sostanziale, adeguato a dare risposte ad un modello di rapporto sociale e civile, oggi, diverso da quello dell’Italia di cinquant’anni fa (soprattutto in presenza di una pandemia). Infatti proprio i problemi emersi in questi mesi sottolineano il bisogno di reinventare lo Stato delle autonomie di cui è legittimamente orgogliosa la storia della nascita della Costituzione che ci governa. Insomma, a dirla in breve, non abbiamo mai definito una griglia di Livelli Essenziali delle Prestazioni (mutabile nel tempo, s’intende, perché il mondo cambia e con esso cambiano i bisogni elementari delle persone) e senza questo primo e fondamentale passaggio oggi ci accorgiamo che rischia di non essere riconoscibile né condivisibile alcun legittimo diritto dell’esercizio della gestione dell’autonomia; perché sembra che si vadano confondendo e contrapponendo i concetti di “diritto” ai LEP e “accaparramento” dei medesimi.
E questo genera conflittualità sociale, di livello elevata e pericolosa (soprattutto se strumentalizzata o strumentalizzabile).

Forse di tutto questo, ma anche di altro, avremmo dovuto parlare in questo anno nel quale avremmo dovuto celebrare il 50enario della nascita delle Regioni a Statuto ordinario. E questo, forse, ci avrebbe condotti ad una revisione sostanziale della seconda parte della Carta costituzionale, di cui da anni si parla inutilmente, anzi sembra che chi prova a metterci mano (prendendo per buona l’opinione pubblica che veicola il riconosciuto bisogni dei cambiamenti) sia immediatamente fatto fuori, insomma le brucia.
E torniamo al condizionale dei desideri: avremmo dovuto discutere di tutto questo, ma abbiamo dovuto occuparci di altro; e forse ne avremo ancora per molto tempo.
Passata questa difficile congiuntura, tuttavia, sarà necessario ricordarci di questo debito che abbiamo, rispetto al nostro futuro. E l’augurio, che un vecchio come me può azzardare, è che siano i figli e i nipoti a pretenderlo. Noi, in questi settant’anni (più o meno) abbiamo avviato quest’esperienza repubblicana tentando di utilizzare al meglio gli strumenti che i padri della Repubblica hanno individuato nel momento in cui, cessato il fascismo e la seconda guerra mondiale, si incominciava a scrivere un altro capitolo della storia di questo Paese e dell’Europa.
I cambiamenti globali che hanno caratterizzato questo periodo ci impongono di dire: qualcosa va bene, molto va rifatto di sana pianta, così non funziona più. Non è un problema.
L’essenziale e averne la consapevolezza e mettersi d’accordo sugli indicatori condivisi del cambiamento.

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