E' arrivato il momento di riparlare della sanità
L’avevo annunciato e mantengo gli impegni. In piena emergenza COVID quante volte ho dovuto “mordermi la lingua” (come si dice quando, con una nota figura retorica, si vuol dare ad intendere una sorta di autocensura). E avevo rinviato ogni mia riflessione, sul funzionamento del SSR, ad un momento più opportuno.
Ora questo mi sembra sia arrivato, anche perché ci sono e ci saranno soldi a disposizione (mi permetto di dire che non utilizzare il MES sarebbe un errore politicamente imperdonabile), ci sono sollecitazioni, anche nazionali, ma soprattutto mi sembra che sia già scattata la corsa, da parte dei territori delle quattro ASL regionali, per tentare di “riprendersi” qualcosa che negli anni passati gli è stato sottratto.
(E voglio dirlo subito, a scanso di equivoci: quest’ultima è una logica che personalmente non condivido affatto. Penso che per rendere più efficace ed efficiente il sistema sanitario regionale, oggi, non si debba andare a ridistribuire a pioggia tutto su tutti, specie se parliamo esclusivamente dei presidi ospedalieri. Torneremmo presto a dover prendere atto che i costi di un’assistenza pensata così non sono sostenibili. E ricominceremmo con l’odiosa politica dei tagli).
Se dall’esperienza pandemica (passata?) dobbiamo imparare qualcosa, la prima questione che dobbiamo affrontare è certamente legata alla ristrutturazione della medicina del territorio, quella di prossimità, quella di cui si era anche incominciato a balbettare qualcosa (soprattutto per iniziativa delle associazioni che raccolgono i medici di famiglia, alla vigilia dell’apertura della FASE 2) a proposito della “case della salute”.
Di cosa abbiamo bisogno, perché la medicina di prossimità funzioni davvero, in termini di risorse umane, strumentali, diagnostici, di sistema?
Bisogna partire dalla risposta dettagliata a questa domanda per rifare un Piano Sanitario Regionale capace di assicurare tranquillità e certezze al milione e duecentomila abitanti (circa) che siamo in questa regione che, condizionati (è vero) da una situazione orografica che è quella che conosciamo, spesso hanno difficoltà di collegamento con i centri ospedalieri nei quali è assicurabile la diagnosi, la cura e riabilitazione di cui hanno eventualmente bisogno (ordinariamente, aggiungo, non soltanto nelle emergenze che abbiamo dovuto affrontare nei mesi scorsi. Non dimentichiamo, per piacere, che durante questi mesi la medicina ordinaria è stata praticamente sospesa negli ospedali. E queste situazioni dobbiamo scongiurarle. Il compito della politica, oggi, è quello di pensare un sistema sanitario capace di distinguere e dare risposte sia alle eventuali emergenze che alla quotidianità, alla ordinarietà dei bisogni di una popolazione per lo più anziana e malandata! E per adempiere bene a questo compito basterebbe una sola ASL; sarebbe funzionale e potrebbe assicurare un livello sempre più alto di servizi).
Ma, a proposito di emergenza, la pandemia ci ha insegnato (anche analizzando quello che è accaduto in altre regioni: Lombardia e Veneto, per esempio) che lì dove c’è una Servizio sanitario territorialmente diffuso ed affidabile le cose sono andate meglio, rispetto a zone nelle quali la sanità è “eccellente”, d’accordo, ma è chiusa ed isolata in presidi specializzati ed esclusivi.
In Abruzzo, assodata una rinnovata valutazione del numero dei posti letto per terapie intensive e sub-intensive, al netto dell’incremento già realizzato nei mesi scorsi a Pescara (dove è nato un Ospedale esclusivo) e L’Aquila (dove ci si è ricordati dell’Ospedale G8), oggi occorrerà soltanto garantire una quantità di personale stabile e qualificato, penso che una corretta visione dei bisogni dei cittadini abruzzesi debba suggerire alla Regione un dettaglio di intervento su una zonizzazione ripensata e condivisa che includa e non ghettizzi chi vive in aree disagiate, favorendo servizi polivalenti non soltanto per dare risposte agli interventi di emergenza e di pronto soccorso, ma anche ai servizi ambulatoriali che normalmente rendono eccessivi (penso alle famigerate liste d’attesa) tempi di diagnostica e di cura delle patologie ordinarie e ricorrenti.
E’ all’interno di questa logica che vanno rimodellati, sul territorio, servizi, reparti e dipartimenti, di base e di primo livello. Infatti sembra stucchevole (lo dico con la solita franchezza) il riemergente confronto sugli ospedali di secondo livello da sempre, in qualche modo, legati alle funzioni universitarie operanti nell’area metropolitana Chieti-Pescara e in L’Aquila. E la presenza dell’alta specializzazione in queste sedi ospedaliere, purché utilizzabili davvero (alludo ai tempi e ai protocolli di accesso) sembrano sufficienti a garantire un numero di popolazione così modesto.
E poi c’è il problema del ripensamento del rapporto pubblico/privato, in un’ottica di implementazione del servizio a tutela della salute pubblica.
E qui, per ora mi taccio. Ora il futuro è nelle mani di chi fa politica: dei sindaci soprattutto, che debbono essere abili a cogliere le sintesi delle attese territoriali e veicolarle, tramite i consiglieri regionali di riferimento, fino all’assessore regionale alla Sanità e alle strutture operative che la supportano. I sindaci che farebbero bene a leggere, da oggi, i bisogni dei territori allargando lo sguardo, in raccordo territoriale con i Comuni viciniori, rifiutando la logica accaparratrice, campanilistica ed egoistica di chi pensa di poter star meglio con lo stretto indispensabile.
Non credo che sarà facile. Ma si può fare.