Parliamo di cose concrete!

di Andrea Iannamorelli

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#32 - 29/04/2020

Aspettando la fase due (3)

Personalmente penso che se c’è una consapevolezza che dall’avventura della pandemia COVID-19 dobbiamo metabolizzare tutti, non soltanto noi Italiani, ma tutti gli Stati aderenti alla Unione Europea, tanto per incominciare, sperando di trascinare anche gli altri Stati, è che la cultura della globalizzazione nella quale viviamo ci penalizza e pretende di essere rinnovata e rinvigorita da una forte iniezione di solidarietà.
Lo slang “nulla sarà come prima”, per avere senso, dovrà pertanto tradursi in una visione forse completamente diversa dei rapporti tra i popoli (ricordiamoci sempre delle lezioni di questi giorni di Papa Francesco) sui quali, tra la fine del secolo scorso ed il presente, si è manifestata la difficile e difettosa convivenza che arricchisce chi è già ricco di suo, indebolisce ed impoverisce chi è già povero.
In grande sintesi, alla logica della finanza, dell’economia e della “concorrenza”, deve subentrare la logica del riconoscimento dei diritti della persona a costruirsi un legittimo sviluppo.

IL COVID-19 E L’EUROPA

Non era proprio necessaria la pandemia del CORONAVIRUS per farci scoprire il bisogno di riesaminare i rapporti tra gli Stati europei tra loro e tra le procedure istituzionali cresciute all’interno dell’Unione (dal 1957 ad oggi).
Se ne parla da anni, in maniera soft dai primi degli anni novanta, successivamente, dopo Maastricht, appunto, in forme e modi sempre più serrati e stringenti. Ma inutilmente, finora. Soprattutto in relazione alla gestione della macchina europea per la garanzia, verso gli Stati membri, di scelte politiche solidali.
L’idea guida dei fondatori (che nel marzo del ’57, con il trattato di Roma, avevano raccolto le idealità e le aspirazioni e lo spirito del Manifesto di Ventotene) non era certo un’unione a tratti formalmente “federata” (si pensi alla politica monetaria ed ambientale, per esempio), a tratti “confederata” (perché priva di una politica interna ed industriale unitarie) e/o ad un’organizzazione tra Stati sovranazionale, del tutto priva cioè, di una linea di politica estera.
I promotori dell’Unione, dopo i disastri derivati dalla seconda guerra mondiale, spinsero anche i più riottosi a siglare il Trattato in omaggio ad una strategia che avrebbe dovuto garantire pace e sviluppo.
E certamente il minimo di questi traguardi, obiettivamente e mediamente, sono stati garantiti.
Tuttavia quante difficoltà, soprattutto dopo l’allargamento dell’unione dagli originari sei agli attuali ventisette Stati membri, soprattutto in relazione alla garanzia dello sviluppo di ciascuno.
E le difficoltà sono riconoscibili ed individuate soprattutto in relazione all’incapacità di una vera integrazione che trasformi l’Unione, appunto, in una federazione. Ciascuno non vuol rinunciare alla sovranità di cui è titolare, nemmeno ad un pezzo della medesima. E diventa difficile, pertanto, anche individuare gli strumenti per realizzare le finalità riconosciute nella ragione stessa dell’Unione.
L’esperienza tristissima della pandemia COVID in atto ne è la riprova.
Lo accennavo poco sopra. Senza entrare nel merito delle proposte di aiuto di cui tutti hanno bisogno per aver fatto fronte alla pandemia (spese sanitarie e prolungato blocco delle attività produttive) consentitemi di affermare, con semplicità che i meccanismi con i quali si ritiene di intervenire, in qualche modo reimpiegando, non dimentichiamolo mai, le finanze e le ricchezze che ciascuno Stato annualmente mette a disposizione dell’Unione, sono farraginosi, lenti e pieni di incognite. Non sto parlando degli interventi che nel 2009 hanno riguardato il ripiano di debiti accumulati dalla Grecia (dichiaratamente falsificati, a detta dell’allora primo ministro in carica George Papandreu), ma mi riferisco alla risposta solidaristica e comunitaria che oggi riguarda ed interessa tutti, in maniera diversa, s’intende, ma con una medesima finalità e prospettiva: tamponare le voragini di bilancio che dappertutto si sono registrate e si registrano per sostenere le popolazioni di ciascuno Stato colpite dalla pandemia.
E’ questa l’occasione per quel salto di qualità capace di trasformare l’UE in una federazione di popolo che vuole fare insieme un cammino di sviluppo. Un’Unione solidaristica, appunto.
Ed è evidente che tutti gli sforzi finora messi in campo (dai soccorsi della BCE a favore del titoli di Stato “sofferenti” alle deroghe per gli “sfondamenti” dei bilanci nazionali: sforzi e novità certamente innovativi, rispetto alla cronaca dell’Unione dal ’92 ad oggi) rischiano di dimostrarsi poca cosa se ora, in questo momento, la solidarietà dovesse manifestarsi ancora in termini formali e burocratici e incapace di materializzarsi concretamente in sostegno a chi soffre.
Altrettanto evidente è che questa rinnovata “visione” dell’UE necessariamente deve prescindere dai sovranismi, dichiarati o subdoli, che ora condizionano ed appesantiscono l’espressività delle finalità proprie dell’Unione.
Vedremo cosa accadrà. Una cosa a mio parere sembra importante: la forza pandemicamente devastante del COVID-19 a quasi settanta anni dalla nascita degli schemi di riferimento della convivenza mondiale obbliga tutti ad un riesame critico e ad un aggiornamento dei modi di essere per un futuro che può far aprire una nuova fase della storia che viviamo.
Se “nulla” dovrà “essere come prima”, necessariamente dovrà esserci un dopo che dovrà essere nuovo.
Il rischio potrebbe essere politicamente, culturalmente e sociologicamente devastante, perché potrebbe anche significare un passo indietro.
Auguriamoci di no.

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