Parliamo di cose concrete!

di Andrea Iannamorelli

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#31 - 28/04/2020

Aspettando la fase due (2)

“Il sistema sanitario più bello del mondo”, si diceva parlando dell’Italia prima della vicenda di questi mesi.
E per la verità, se pensiamo al sacrificio di tante, troppe professionalità (più di cento, tra medici ed infermieri che ci hanno rimesso la vita) non si può non confermare la grande bellezza di cui il sistema dispone.
Ma non vi sembra che una cosa è l’abnegazione professionale di chi nel sistema opera, ben altra è l’efficacia e l’efficienza del sistema? A me sì.

I RAPPORTI STATO/REGIONI E LA RISTRUTTURAZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE

Il sistema sanitario nazionale, in attuazione del dettato costituzionale, è nato il 1° luglio del 1980 per effetto della Legge n. 833/’78 che instaurava, con prospettiva di servizio universale su tutto il territorio nazionale, la prevenzione, la diagnosi, la cura e la riabilitazione di ogni cittadino, dalla nascita alla morte, prevedendo il decentramento e la territorializzazione come strumenti di intervento capaci di drenare, quanto più possibile, l’accesso agli Ospedali, se non per le patologie che avrebbero avuto bisogno di interventi specialistici e/o complessi. Prima di allora la salute dei cittadini era affidata ad Enti mutualistici perlopiù riconducibili alle fonti di lavoro di ciascuno e gli Ospedali erano per la maggior parte di origine e di gestione privata. (Chi vi parla sa molto bene quello che dice, essendo stato chiamato a gestire l’allora ULSS di questo territorio alla fine del primo decennio di attuazione di questa riforma epocale ed avendo dovuto fare i conti con la complessità dei rapporti tra i vecchi enti e i vecchi gestori dei diversi servizi raccogliendone ed equiparandone tutti gli aspetti infrastrutturali, funzionali, di gestione del personale e delle risorse strumentali. Un’impresa immane e costosissima).
La valorizzazione del territorio (decentramento, autonomia) sono, pertanto, alla radice di questo progetto ambizioso che ha portato, nella storia di questi decenni, il SSN italiano sugli scudi delle valutazioni degli esperti a livello mondiale.
Certo, dal 1980 ad oggi tante cose sono cambiate e il processo di attuazione dello spirito e della lettera di quella riforma ha subito vicende (nazionali e periferiche) non sempre utili allo scopo del raggiungimento delle finalità che alla legge originariamente appartenevano.
I rapporti Stato/Regioni, per esempio, in attuazione del dettato costituzionale (1947/1948), ha subito una serie di revisioni non sempre attente e puntuali. Il dibattito politico ed i rapporti tra i partiti ha finito con l’esasperare (spesso strumentalizzare) la giustezza dei principi di “decentramento” e “autonomia” finendo con il penalizzare l’efficacia e l’efficienza dei principi contenuti nella legge istitutiva.
E gli esiti, negativi, a mio personalissimo parere, li abbiamo pagati tutti di fronte all’esplosione di questa inimmaginabile pandemia.

Teoricamente era tutto a posto. Il cittadino, di fronte ai sintomi annunciati e conclamati, avrebbe dovuto rivolgersi al medico di famiglia il quale, in assoluta sicurezza, avrebbe dovuto avviare la procedura finalizzata a tutelare l’accertamento di diagnosi (pre-triage) con tutti i comportamenti conseguenti: isolamento domiciliare assistito e controllato ovvero ricovero protetto in struttura destinata. In presenza di diagnosi di “positività” –COVID/19; il servizio territoriale avrebbe dovuto rintracciare e valutare tutti i contatti avuti dal cittadino in assistenza per selezionare l’eventuale grado di infettività inopinatamente generato.
Diciamo che questo “teorico” sistema non ha funzionato sempre e dappertutto, forse perché non eravamo pronti, certamente perché non eravamo attrezzati adeguatamente (sul territorio e non solo; con i medici di famiglia privi dei necessari ed indispensabili strumenti protettivi personali; con un’intempestiva individuazione degli eventuali luoghi di ricovero protetto, percorsi COVID e/o NO-COVID negli Ospedali, con un’inadeguata ovvero assolutamente insufficiente dotazione di tamponi da somministrare, tempi rapidi di lettura, assenza di mascherine protettive).
Insomma è accaduto quello che non doveva accadere. E l’epidemia si è trasformata in pandemia, con virulenza diversificata, presto, fin dai primi giorni del mese di marzo scorso: in Veneto e in Lombardia in maniera esplosiva. Proprio lì dove tutti ritenevamo che ci fosse il “top” del servizio sanitario di cui siamo orgogliosi. (In Veneto servizi perlopiù territoriali e pubblici; in Lombardia il top dei servizi sanitari privati).
E in quel momento, pertanto, è successo il peggio. L’indecisione e la conflittualità tra Regioni e Governo (in omaggio ovvero in attuazione di un’impropria lettura del decentramento gestionale e autonomistico della sanità pubblica) hanno provocato “le fughe” verso le residenze d’origine di quanti, per ragioni di lavoro o di studio erano e sono domiciliati nelle zone a più alta intensità di contagio epidemico (ricordiamo tutti cos’è accaduto nella notte tra il 7 e l’8 marzo!).
Nel frattempo l’inadeguatezza e l’impreparazione del territorio hanno provocato le degenerazioni curative e il collasso del sistema nel complesso (e abbiamo scoperto l’insufficienza dei posti letto di terapia intensiva negli Ospedali; siamo stati costretti, e ancora oggi siamo in qualche modo costretti, a rinunciare alle prestazioni ordinarie ospedaliere per la momentanea interdizione di alcuni servizi. E qui tralascio di raccontare esperienze personali diretta e/o vicine agli affetti più cari e familiari, ma dico che trasalireste se, con ampia facoltà di prova, lo facessi. E del resto la cronaca quotidiana di queste settimane racconta anche di persone decedute di infarto, per esempio, perché impossibilitato a recarsi in Ospedale!).
I bracci operativi della sanità pubblica in qualche caso si son fatti trovare inadeguati; ma i livelli decisori di questa, hanno mostrato di avere una visione parziale e limitata del bisogno di controllo dei presidi sanitari privati, addirittura anche convenzionati con il SSN. Alludo a quello che è accaduto, nel nostre vicinanze, alla Clinica San Raffaele e a quello che sta emergendo dalle vicende che raccontano sulle sofferenze e sui decessi nelle RSA nel nord e anche in qualche regione del sud, anche in Abruzzo. Il comportamento dei gestori e degli operatori sanitari di questi luoghi ha rasentato l’incomprensione. Tant’è che ne vedremo di strascichi giudiziari per effetto delle 20 e più inchieste al momento avviate!
Ora (quando i numeri, spesso incomprensibili, dell’andamento quotidiano dell’epidemia sembrano avviarsi verso una curva discendente) siamo alle prese con la “querelle sulle riaperture” (perché bisogna tornare alla vita normale) e qui la conflittualità Stato/Regione (in forza di una facile ed egoistica lettura degli assetti e dei rapporti derivanti dal Titolo V° della Costituzione), conflittualità apparentemente giustificata anche da legittimi interessi di tenuta o ripresa delle attività delle imprese manifatturiere, dei servizi e dell’artigianato, sta esprimendo, in negativo, “il meglio di sé”, come sinceramente non avrei mai pensato che potesse accadere. Insomma è sacrosanto che in forza dello schema dettato nel Titolo V° della Costituzione l’organizzazione del servizio sanitario nazionale è conferito alle Regioni, ma altrettanto (anche di più) sacrosanto è che la tutela della salute degli Italiani è e resta in capo ai poteri dello Stato che non può e non deve delegarli; a tutela di tutti nel rispetto dei compiti e delle finalità proprie della legge che, nel 1980, istituì il SSN.
Certo, l’assetto complessivo del sistema va ristrutturato. E la vicenda della pandemia in atto dovrà suggerirci le strade da percorrere, perché l’esperienza ha dimostrato che così non può funzionare.
Personalmente ritengo che i localismi non hanno più alcuna legittimazione; o meglio: non si può far passare, in questo terzo millennio, l’esigenza di decentramento e autonomia dei servizi (assolutamente necessari ed indispensabili), come rivendicazione localistica di servizi che sul territorio vanno sì garantiti ma per standard demografici di utilizzazione adeguati e sostenibili. (Un po’ come, qualche decennio fa, si è fatto con le infrastrutture scolastiche, per capirci. E a proposito del come si dovrà ritornare a scuola, in autunno, sarà forse opportuno un confronto davvero attento, ampio ed approfondito. Non si possono liquidare le questioni infrastrutturali legate alla garanzia del cosiddetto “distanziamento” con una semplice turnazione degli alunni. Alle carenze di organico esistenti, l’anno prossimo si aggiungeranno quelle derivanti dai pensionamenti ex quota100, nonché le previsioni di incremento derivanti dagli inevitabili sdoppiamento delle classi, appunto. Altrimenti tanti saluti al “distanziamento”, tra alunni e docenti!).
E quanto ai rapporti Stato/Regioni va ridefinito, normato e stabilizzato l’affidamento di compiti e ruoli, sulla base di interessi strategici nazionali e generali i cui risultati, con sistematicità, debbono essere oggetto di valutazione. E per razionalizzare l’ospedalizzazione degli ammalati forse va ristrutturata daccapo la medicina di prossimità (sul territorio? Ma anche e soprattutto in territori poco estesi, facilmente governabili e raggiungibili. Qualcuno già pensa, per esempio, nei condomini, a possibili ambulatori di assistenza domiciliare. E comunque la medicina di prossimità andrebbe ripensata in termini polifunzionali!).
Insomma, passata questa congiuntura sfavorevole, ne avremo di questioni da affrontare.
Auguriamoci soltanto che una memoria fervida ci assista e soprattutto che, se dovessimo vedere che il dibattito e le scelte dei governanti a tutti i livelli dovessero manifestare defezioni di memoria, noi si abbia l’attenzione per ricordare a tutti, questo brutto film, che tra l’altro ancora non è ancora finito.
(continua)

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